CULTURA  
    di Lino Lavorgna    
       
    SHOAH: LE VERITA' NASCOSTE    
   
27 gennaio 1945: le truppe dell'Armata rossa in marcia verso la Germania entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz, il più noto tra i tanti che i tedeschi disseminarono in tutta Europa. Caso volle che i primi soldati a mettere piede in quel tetro teatro dell'orrore facessero parte di una divisione composta prevalentemente da soldati ucraini, guidati dal maggiore Anatoliy Pavlovych Shapiro, ebreo nato a Krasnohard, cittadina non lontana da Charkiv, tristemente resa famosa dagli orrori contemporanei praticati da chi pervicacemente vuole spostare all'indietro le lancette dell'orologio.
Nel 2005 l'ONU ha scelto proprio la data del 27 gennaio per commemorare le vittime dell'olocausto, consacrandola alla storia come "Giorno della Memoria", quale monito affinché mai più abbiano a ripetersi tali mostruose atrocità. Per quanti sforzi si possano compiere, tuttavia, non sarà mai fatto abbastanza per civilizzare una buona fetta di umanità che, a distanza di ottantadue anni da quella immane tragedia, seconda solo allo sterminio per fame del popolo ucraino perpetrato da Stalin negli anni Trenta, in un delirio che atterrisce continua a sventolare i vessilli del più becero razzismo contro chiunque non risponda ai canoni della propria psicotica visione del mondo. L'antisemitismo è più vivo che mai e non a caso la senatrice Liliana Segre, che le atrocità di Auschwitz porta nel corpo e nell'anima, nei giorni antecedenti alle tante manifestazioni organizzate a gennaio, ha dichiarato testualmente: "Una come me ritiene che tra qualche anno ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella.
Le iniziative che possono venire da una vecchia come me a volte sono noiose per gli altri, questo lo capisco perfettamente, so cosa dice la gente del Giorno della memoria. La gente già da anni dice, 'basta con questi ebrei, che cosa noiosa'. Il pericolo dell'oblio c'è sempre". Frasi che fanno riflettere, soprattutto se seguite da fatti concreti: negli stessi giorni, in un teatro di Milano, un "professore" ha interrotto l'attrice che parlava dell'olocausto definendo baggianate le sue asserzioni.
Non è un caso isolato, essendo il negazionismo ancora molto diffuso nella società contemporanea. Una più efficace formazione, quindi, soprattutto in ambito scolastico, risulta fondamentale per combattere l'intolleranza figlia dell'ignoranza. Non bisogna mai smettere di sviscerare le brutture della storia, in qualsiasi epoca siano state consumate, per portare alla luce fatti obnubilati vuoi per leggerezza vuoi per manifesta complicità con i despoti o per biechi calcoli di opportunismo. Attorno alle mostruosità naziste, per esempio, gravitano ancora molte vicende oscure tenute ben nascoste in un vaso molto più grande di quello di Pandora.
Scoperchiarlo consente di penetrare nei meandri della storia e scoprire cose che noi umani non potremmo mai immaginare perché compiute da esseri che degli umani avevano solo le fattezze morfologiche, essendo dei veri e propri demoni.

QUELLE BOMBE MAI CADUTE
Sul finire della guerra la Germania era ridotta a un ammasso di rovine: 635 mila i morti civili, 10 milioni i senzatetto, intere città rase al suolo, "quasi tutte" le linee ferroviarie distrutte. "Quasi tutte" perché, stranamente, quelle percorse dai vagoni diretti verso i campi di concentramento rimanevano intatte. Il solo lager di Buchenwald fu bombardato, ma per un mero errore che costò la vita a Mafalda di Savoia, rimasta gravemente ferita e lasciata morire dissanguata dai carnefici dopo una terribile amputazione del braccio che si trasformò in una vera tortura.
Gli Alleati conoscevano la dislocazione di tutti i campi e quello di Auschwitz, dall'aprile 1944 al giorno della conquista, fu fotografato dai ricognitori aerei almeno trenta volte. La distruzione dei campi, possibile sol che si fosse voluta, avrebbe salvato la vita a milioni di persone. La salvezza degli Ebrei - oramai non è più un mistero - non costituiva una priorità per le nazioni alleate contro la Germania. Su raicultura.it, nella sezione "Eco della storia", è possibile vedere un interessante documentario di Gianni Riotta dedicato proprio a questa vicenda: "Perché non bombardare Auschwitz?".
Il bravo giornalista intervista lo storico Umberto Gentiloni Silveri, autore del saggio "Bombardare Auschwitz. Perché si poteva fare, perché non è stato fatto", Mondadori, Milano, 2015. Un saggio molto illuminante perché spiega bene come fossero rimasti inascoltati gli appelli dei sopravvissuti, che nel periodo della detenzione sobbalzavano quando sentivano in lontananza il rombo degli aerei, sperando nel loro soccorso, per poi rattristarsi di nuovo quando il rumore svaniva lentamente e con esso la speranza della libertà. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, fino a quel fatidico 27 settembre, quando però il colpevole ritardo aveva contribuito a rendere spaventoso il numero delle vittime. Con un linguaggio crudo, che scuote e tormenta, l'autore ci ammonisce non solo sul ritardo dell'intervento in tempo di guerra ma anche sui troppi anni occorsi affinché il mondo si rendesse pienamente conto di cosa rappresenti la Shoah.

L'INFERNO STALINIANO - L'ANTISEMITISMO RUSSO
Per Marx gli Ebrei erano i demoni accecati dal denaro, ma li identificava comunque come minoranza religiosa facilmente integrabile.
In Russia, con Lenin e Stalin, il problema ebraico assunse caratteri diversi, in virtù del concetto di nazione che si andava affermando. Nel 1913 Stalin scrive testualmente: "Una nazione è una comunità storicamente evoluta e stabile, con un linguaggio, territorio, vita economica e formazione comuni, che si esprime in una comunanza di cultura1". Il popolo russo, in massima parte, aveva sentimenti ostili agli Ebrei e le sommosse popolari antisemite, che ebbero luogo dal 1871 al 1921, passate alla storia con il termine pogrom, ne costituiscono un'inconfutabile testimonianza. Negli anni Trenta il nazionalismo raggiunse livelli apicali e furono tempi duri non solo per gli Ebrei.
Nel 1937, con la prima deportazione di massa, la minoranza coreana fu trasferita nel duro e inospitale territorio del Kazakistan. Nel 1940 furono deportati gli estoni e i finlandesi. Nel 1941 toccò ai Tedeschi del Volga. Dopo la guerra toccò ai ceceni, ai Tartari e ad altre etnie caucasiche2. Milioni di cittadini, considerati non integrabili nella società russa, furono deportati nei territori dove poi avrebbero sviluppato le rispettive etnie. Stalin, in quanto a crudeltà, non aveva nulla da invidiare a Hitler. Sui suoi crimini, però, si è preferito stendere per molto tempo una patina oscurantista, sgretolatasi progressivamente dopo la caduta del muro di Berlino.
Massacrò oltre dieci milioni di kulaki, i contadini russi ostili al vento rivoluzionario e decimò la casta degli ufficiali con le famose "grandi purghe" (circa 40 mila validissimi soldati, la cui assenza si sentì pesantemente quando la Germania invase la Russia), per l'infondato timore che potessero sobillare l'esercito. La cifra degli Ebrei si aggira sui cinque milioni, ma il dato va considerato inferiore al numero effettivo.
Con il massacro di Katyn' fu decimata l'intellighenzia polacca (tutti gli ufficiali dell'esercito erano espressione della borghesia illuminata e dell'aristocrazia3), in modo da impedire ogni possibile ribellione alle mire egemoniche nell'area: quindicimila le vittime. Negli anni Settanta non ebbe fortuna l'importante saggio di Aleksandr Solženicyn, "Arcipelago Gulag4", osteggiato sia dalla sinistra, asservita a Mosca, sia dalla destra, che cercò tiepidamente di valorizzarlo per lo più in chiave anti-comunista. Anche a destra, infatti, un becero antisemitismo "di riflesso", caratterizzato quindi solo dall'ignoranza di chi si approcciava a un mondo molto complesso e composito senza solide basi culturali, costituiva una tragica realtà.
Oggi il fenomeno è molto sfumato e riguarda precipuamente i gruppuscoli estremisti. Non mancano, tuttavia, soggetti che, pur avendo raggiunto un discreto livello culturale, non disdegnano di manifestare, magari in un ambito ristretto perché consapevoli del loro anacronismo intellettuale, quell'odio razziale difficilmente scardinabile perché incrostato nella nostalgia di un passato dal quale non riescono a decantare il bene dal male.
L'autore di quest'articolo, vox clamantis in deserto insieme con quelle di pochi altri, tentò invano di dare voce all'illustre esule, essendo il fronte dei denigratori vasto, variegato e di grosso peso. Giorgio Napolitano, con il pieno sostegno di tutto il PC, all'epoca diretto da Berlinguer, definì aberranti le analisi socio-politiche di Solženicyn e legittimo l'esilio.
Ancora più terribili furono i giudizi espressi da altri due campioni del radicalismo sinistrorso: Umberto Eco e Alberto Moravia. Per il primo Solženicyn era "una sorta di Dostoevskij da strapazzo"; per il secondo un "nazionalista slavofilo della più bell'acqua". Vittorio Foa, molto candidamente, a novanta anni dichiarò che il libro non lo aveva proprio letto.
La cosa più triste, comunque, fu l'ignominioso comportamento della "Mondadori": invece di pubblicizzare il saggio secondo normali regole aziendali protese a produrre utili dai propri investimenti, lo trascurò artatamente e spostò l'attenzione mediatica sul saggio di Oriana Fallaci Intervista con la storia, uscito nello stesso periodo.
Il libro dell'esule russo, intanto, spopolava in tutto il mondo e, ça va sans dire, in modo particolare in Francia.

PAPA PACELLI E LE COLPE DELLA CHIESA
L'argomento è delicato, soprattutto in un momento come questo, che vede la Chiesa in grossa difficoltà nel conciliare la propensione dogmatica alla mutevolezza dei tempi e alle pressioni di una società allo sbando, che sovverte tutti i valori. Le terribili responsabilità in tema di antisemitismo, però, che pur avendo radici antiche raggiunsero livelli d'imbarazzante complicità nella seconda guerra mondiale, non possono essere sottaciute. Dal sostegno alle leggi razziali del 1938 al silenzio di Papa Pacelli, vi è davvero tanto da farsi perdonare. Il pragmatismo del Papa (termine non utilizzato a caso perché trova riscontro in molte cronache dell'epoca e nelle analisi di eminenti studiosi) lo portò a considerare il nazismo come l'ultima spiaggia contro il bolscevismo. Va anche detto, comunque, che molti Ebrei ebbero salva la vita grazie agli esponenti ecclesiastici che non facevano perfidi calcoli politici e offrirono loro ospitalità all'interno del Vaticano.
Questo scottante argomento è stato oggetto di una importante opera teatrale, Il Vicario, (il titolo originale, Der Stellvertreter, fa riferimento proprio al Papa, Vicario di Cristo), scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nel 1963 e fonte di non poche polemiche per la manifesta accusa di complicità. In Italia fu addirittura censurata dopo la prima rappresentazione e solo nel 2007 fu resa di nuovo disponibile.
Da essa, intanto, nel 2002 il regista Costa Gravas trasse lo spunto per il film "Amen", allargandone il contesto narrativo con l'inserimento di Kurt Gerstein, membro dell'Istituto d'igiene delle Waffen-SS che, dopo aver depurato l'acqua potabile con lo Zyklon B, scoprì che l'agente fumigante a base di acido cianidrico era stato utilizzato anche nelle camere a gas di Auschwitz. Scioccato, tentò di informare il Papa affinché levasse la sua voce contro i campi di sterminio, ottenendo, però, una chiusura totale a ogni tentativo di denuncia.

STERILIZZAZIONE DI MASSA NELLA CIVILISSIMA SVEZIA.
In premessa devo dire che amo molto il popolo svedese sia per retaggio ancestrale sia per solidi vincoli amicali5. Affetto e stupendi ricordi, tuttavia, non m'impediscono di segnalare l'eccellente saggio di Piero Colla intitolato "Per la nazione e per la razza. Cittadini ed esclusi nel modello svedese", edito da Carocci nel 2000.
Nella civilissima Svezia, tra il 1934 e il 1997 (avete letto bene: 1997!) ben 63.000 persone, in prevalenza donne, furono sterilizzate in ossequio a quei principi razziali non certo dissimili da quelli che caratterizzavano l'aberrazione nazista. Anche in Svezia l'antisemitismo ha radici antiche e fino al 1870 gli Ebrei non potevano scegliere dove abitare, subendo pesanti vessazioni e discriminazioni, tra le quali assume particolare rilevanza il "passaporto speciale" adottato nel 1938 e subito emulato in Germania e Svizzera, che prevedeva una "J" maiuscola di colore rosso timbrata sulla prima pagina.

CONCLUSIONI
L'articolo potrebbe continuare ancora per molte pagine perché non vi è Paese al mondo immune da colpe nei confronti degli Ebrei, a cominciare dagli Stati Uniti e non solo per il mancato bombardamento dei campi di concentramento. Un antisemitismo "strisciante" si è sempre registrato nella società americana, salvo poi affievolirsi in virtù dell'affermazione, in tutti i campi, proprio degli Ebrei. Tra i tanti episodi va ricordato il drastico intervento di Roosevelt, che impedì con la forza l'approdo di un piroscafo pieno di fuggiaschi, partito da Amburgo. Churchill, dal suo canto, minacciò di silurare a Sulina, nel Mar Nero, un altro carico di Ebrei in navigazione verso la Palestina.
Nel febbraio del 1942, lo "Struma", una nave di profughi proveniente dalla Romania, affondò nel Mar Nero, con 770 persone a bordo, dopo essere stata respinta dagli inglesi e dai turchi. Perirono tutti. Le vessazioni praticate dagli inglesi agli Ebrei già residenti in Palestina, con fucilazioni sommarie, per scoraggiare nuovi sbarchi, costituiscono una pagina di storia che ancora deve essere decantata in tutta la sua tragicità. In tanti presumono di conoscere la storia di Anna Frank, o per aver letto il diario o per aver visto il film. Pochi sanno, però, che il papà tentò invano, sin dal 1941, di emigrare negli USA, ottenendo sempre un rifiuto. Con la nascita di "Israele" i vincitori della seconda guerra mondiale hanno presunto di mettersi a posto con la coscienza. Vana presunzione, con quel che è successo dopo e continua a succedere.
Siamo nel XXI secolo, sono trascorsi 78 anni dalla fine delle più terribile guerra che la storia dell'umanità ricordi e il razzismo (di cui l'antisemitismo è solo una delle componenti principali, ma non certo l'unica), non solo non è stato debellato, ma prolifera in modo spaventoso. Parimenti sembra svanire il sogno degli Stati Uniti d'Europa, annichilito da quel cancro sociale che si chiama nazionalismo, primario alimento del razzismo.
Ciò che si fa per combattere i rigurgiti di nazionalismo e il razzismo, pertanto, è sempre poco. Forse dovremmo tutti emulare quei tipi un po' scemotti adusi ad indossare magliette con scritte che inneggiano alla propria superiorità razziale. Indossiamole anche noi, stampandovi una sola semplice frase: "L'unica razza che conosco è quella umana e nessuno ha colpe o meriti per dove nasce ma solo per come vive".








NOTE
1 Josef Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Einaudi Editore, 1974
2 A scanso di equivoci (già verificatisi in passato), si precisa quanto segue. I nomi dei popoli delle varie nazioni vengono scritti con iniziale minuscola, nel rispetto delle corrette regole grammaticali (coreani, estoni, finlandesi, etc.). "Ebrei" viene scritto con carattere maiuscolo in quanto identifica un nome storico, che richiede appunto l'iniziale in maiuscolo (Ittitti; Fenici; Sanniti e Greci (antichi); sanniti e greci se si facesse riferimento a quelli contemporanei). Parlando degli "israeliani" si sarebbe utilizzato il carattere minuscolo. "Tedeschi del Volga" è scritto con la "T" maiuscola perché in questo caso indica le radici etniche di un popolo e quindi si applica la regola del nome storico. In qualche testo si trova la definizione con la "t" minuscola ma l'autore di questo articolo considera tale formula un errore, a meno che non si faccia loro riferimento utilizzando una diversa definizione (es.: Stalin sciolse la Repubblica socialista sovietica autonoma tedesca del Volga ed ordinò l'immediata deportazione delle persone di etnia tedesca sia dalla regione del Volga sia dalle loro altre tradizionali aree di insediamento". Nella frase in cui si parla di ceceni e Tartari i primi hanno l'iniziale minuscola in quanto configurabili con gli occupanti della Cecenia, a prescindere dalle variazioni territoriali subite dal Paese nel corso dei secoli; i Tartari sono un "gruppo etnico" disseminato in vari stati, senza un proprio territorio e quindi anche per loro vale la regola del "nome storico".
3 Uno dei pochi saggi che affronta con obiettività la terribile vicenda, che per molti anni registrò reciproche accuse tra tedeschi e russi, è quello scritto dallo storico canadese di origine russa e vissuto in Italia Victor Zazlavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, 2006 (Lo storico è stato anche consulente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi con il compito precipuo di indagare sull'apparato paramilitare del PCI). Assolutamente da vedere, inoltre, il film Katyn, diretto nel 2008 dal regista polacco Andrzej Wajda.
4 Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag 1918-1956, Arnoldo Mondadori Editore, 1974 (quasi irreperibile la prima edizione, ma disponibili quelle più recenti).
5 I miei avi raggiunsero la Pannonia partendo dalle sponde della Scania, per poi entrare in Italia al seguito di re Alboino. Tra le imprese più belle ed esaltanti portate a compimento nella mia frenetica vita vi è senz'altro la mostra internazionale sui "Ponti di Leonardo", concepita quale supporto culturale alla faraonica opera ingegneristica che unisce, con un ponte sul Baltico, le città di Malmö e Copenaghen e che tanto successo riscosse nelle tre esposizioni di Malmö, Göteborg e Stoccolma. (www.galvanor.wordpress.com/2012/11/01/i-ponti-di-leonardo-il-ventennale-della-grande-mostra)

CULTURA
di Fausto Provenzano
CAVALIERI
L'alba si diffondeva come una festa che virava al rosa tutti i grigi della notte.
Quando passarono gli uccelli ammutolirono al suono cavo degli zoccoli sulle pietre tonde del fiume quasi in secca. Ogni sorta di animale molle, e strisciante nell'incerto confine putrido tra la terra e la melma si rintanò: loro passavano.
Dal folto del suo rifugio di rami secchi, spesso visitato per gioco, ora per paura, riuscì solo a vedere il posteriore dell'ultimo cavallo della fila, che danzava, un passo indolente, la lunga coda nera che si immergeva nell'acqua bassa. Lo scartare improvviso di un cavallo tra le pietre del greto, il continuo muovere le orecchie gli sembrarono segnali umani in quella sequenza di persone impietrite sui loro arcioni che oscillavano nella semioscurità.
Le canne dei loro fucili oscillavano sulle spalle degli uomini come le canne del fiume al vento.
I primi cavalli già risalivano l'argine con un galoppo raccolto, come di liberazione dalle angustie del guado, dalla cautela imposta loro dall'acqua. Gli ultimi della fila ancora si preparavano a discendere la ripa del greto. Tutti, uomini e cavalli, rispettando la consegna del silenzio.
Nel silenzio, rotto solo dal tramestio degli zoccoli, mentre nasceva e si diffondeva il rosa sulle cime dei monti intorno, il concerto dei suoni notturni si interrompeva al passaggio dello squadrone.
Lui, uscito con circospezione dal suo nascondiglio quando l'ultimo cavaliere aveva risalito l'argine opposto, non seppe mai chi fossero e dove andassero, né perché si fosse nascosto tra i rovi dell'argine.
Pare tuttavia che, da racconti nati tra i pastori del luogo, quel drappello da anni si aggirasse da quelle parti alla ricerca di una traccia, attraversando in inverno le gole profonde e d'estate i fiumi in secca, accampandosi sulle alture, senza mai accendere fuochi.
I loro cavalli erano magnifici, dissero alcuni che si erano avvicinati con circospezione al bivacco, belli come non si può descrivere, avevano ciglia lunghe come le donne, e criniere arricciate e fluenti, le code poi erano lunghe e di seta, come i capelli delle zingare.
La loro robusta costituzione suggeriva loro di muoversi con ampie falcate, come una danza, e pareva addirittura che essi comandassero i loro cavalieri.
Questi erano obbedienti e asserviti ai loro voleri: li montavano con osservanza del loro desiderio di procedere giorno per giorno, paghi di attraversare quelle contrade con la grazia regale del loro portamento.
CULTURA
di Lino Lavorgna
A NATION ONCE AGAIN
(Sesta e ultima parte)

DAL VENERDÌ SANTO A SAINT ANDREWS
Il XXI secolo trova un'Irlanda del Nord assopita dagli Accordi del Venerdì Santo, ma non certo rassegnata. La cenere è sempre calda e sotto la cenere cova il fuoco di A Nation Once Again, pur senza raggiunge l'intensità del trentennio precedente. Un mondo in continua evoluzione non lascia indifferenti i giovani irlandesi, molti dei quali, agli albori del nuovo secolo, s'incamminano verso l'età adulta avendo vissuto solo di riflesso e senza assimilarli, per ovvi motivi anagrafici, i tormenti e i disagi causati dai Troubles.
A Belfast i muri della pace, intatti nella loro cupa tristezza, ricordano in ogni momento che quella parte dell'isola è ancora sotto occupazione straniera, alla pari dei cippi e dei monumenti eretti in onore degli eroi caduti inseguendo un sogno, disseminati in ogni angolo della città. La vita continua, tuttavia, imponendo ritmi e regole che spesso annichiliscono la pur forte volontà di chi vorrebbe condizionare gli eventi secondo la propria visione del mondo. Non vi è ricorrenza che non sia celebrata da chi porta nel cuore l'indelebile sofferenza per la perdita di una persona cara, ma non sono pochi coloro che passano distrattamente davanti ai simboli di una storia plurisecolare, per indolenza temporale o perché semplicemente afflitti dalle nuove problematiche, che prendono il sopravvento su tutto il resto.
Nel Sinn Féin persone di alto spessore studiano con attenzione le veloci mutazioni sociali e soprattutto i turbamenti giovanili, e si attivano affinché non si smetta di sognare, adeguando le strategie comunicative a una realtà sostanzialmente diversa rispetto a quella segnata da un clima di guerra civile. Sono gli occhi attenti di Gerry Adams, ovviamente, l'ultimo eroe della vecchia IRA, nato a Belfast, affiancato dall'amico di una vita, di soli due anni più giovane, Martin McGuinnes, nato nel 1950 nell'altra città simbolo della resistenza irlandese, Derry, che nell'IRA entrò a soli venti anni, assurgendo subito a ruoli di comando.
Nel 1977 conquista senza particolari sforzi un seggio al Parlamento di Westminster, rifiutandosi di occuparlo, alla pari di Adams e degli altri parlamentari repubblicani che non riconoscevano il trattato anglo-irlandese del 1921. Nel 1998 capeggiò la delegazione del Sinn Féin per gli Accordi del Venerdì Santo e fu designato vice-premier (definizione impropria perché il ruolo è paritetico a quello del premier) del nuovo governo di coalizione, guidato dal reverendo Ian Paisley, leader del DUP (Democratic Unionist Party), calvinista ortodosso e famoso per la sua ferma opposizione a ogni rapporto con i cattolici: nel 1988 arrivò addirittura a definire papa Giovanni Paolo II l'Anticristo sceso sulla Terra per corrompere l'umanità!
Come sappiamo dal precedente capitolo, però, l'Assemblea dell'Irlanda del Nord fu minata dalle continue accuse che i lealisti rivolgevano al Sinn Féin per il mancato completo disarmo dell'IRA. Bisognerà attendere l'Accordo di Saint Andrews, sottoscritto nel novembre del 2006, e le conseguenti elezioni del 7 marzo 2007, per risolvere la perniciosa questione e ripristinare l'autogoverno, che consentì finalmente a McGuinnes di esercitare pienamente il suo ruolo fino al gennaio 2017, quando si dimise per protesta contro lo scandalo sulla promozione delle energie rinnovabili1. Sempre nel 2007 assunse anche la carica di leader del Sinn Féin nell'Irlanda del Nord, prendendo il posto dell'amico Gerry Adams, che mantenne il ruolo di leader nazionale del partito (quindi anche della componente nell'Eire), esercitato sin dal 1983.
Nel 2012 si verificò l'evento più importante della sua vita, almeno dal punto di vista della rilevanza storica2: l'incontro e la stretta di mano con la Regina Elisabetta presso il teatro Lyric di Belfast. Era la prima volta che un sovrano inglese metteva piede in Irlanda del Nord e McGuinness salutò in gaelico sia la Regina sia Michael Higgins, presidente dell'Eire, per ricordare, caso mai fosse stato dimenticato, che era quella la lingua che si parlava in tutta l'isola fino a quando Enrico II, otto secoli prima, non andò a scompaginare la tranquilla vita di un popolo che viveva all'insegna di una tradizione millenaria, rimasta incontaminata tanto dall'inarrestabile espansione romana quanto dalle successive turbolenze continentali.

L'OMBRA LUNGA DELLA BREXIT
Il rapporto della Gran Bretagna con il resto d'Europa non è mai stato idilliaco e ha radici antiche. Si ritiene superfluo rievocare in questo contesto secoli di storia, essendo sufficiente ricordare che il forte attaccamento alla sovranità nazionale è sempre stato il carattere dominante della politica inglese, favorendo il necessario spirito di sopravvivenza che consentì di bloccare l'ingerenza delle potenze continentali (Spagna e Francia) e di costruire il grande impero che si dissolse solo con la decolonizzazione.
Il forzato isolamento, suffragato dalle conquiste territoriali, contribuì anche a sviluppare quel diffuso complesso di superiorità ancora oggi ben percepibile, ancorché smitizzato proprio dai tanti inglesi capaci di volare alto e leggere la realtà di là dalle apparenze. "Gli inglesi: trenta milioni, in maggioranza cretini", chiosava causticamente Thomas Carlyle verso la metà del XIX secolo, criticando il materialismo esasperato dei connazionali; Benjamin Disraeli, più o meno nello stesso periodo, ripeteva spesso la famosa frase di Napoleone Bonaparte: "L'Inghilterra è una nazione di bottegai", conferendole quindi un peso ancora più pregnante, in linea con quello esercitato nella società sia come saggista sia come politico.
Davvero infinita la lista delle perle di saggezza sui limiti caratteriali e comportamentali degli inglesi affidate ai posteri dai connazionali e dagli stranieri che hanno avuto la ventura (o la sventura) di conoscerli bene; per chiudere il discorso, pertanto, basta la pungente sagacia di due grandi irlandesi dell'epoca vittoriana: George Beranard Shaw e Oscar Wilde.
Per il primo "Gli inglesi non saranno mai schiavi. Avranno sempre la libertà di fare ciò che il governo e l'opinione pubblica pretendono da loro"; per il secondo, che pur essendo nato a Dublino parla da inglese essendosi trasferito a Londra dopo gli studi presso il rinomato Trinity College, "Pensare è la cosa meno salutare al mondo e le persone muoiono di ciò come muoiono di altre malattie. Fortunatamente in Inghilterra, in ogni caso, il pensiero non si afferma. Il fisico splendido del nostro popolo è interamente dovuto alla stupidità nazionale".
Gli aforismi consentono di tratteggiare, sia pure per grandi linee, la dimensione intima di una persona o anche di un intero popolo, ma è solo legando con cura i fili tracciati dalla storia che possiamo comprendere il perché di certi accadimenti.
Al termine della seconda guerra mondiale - e questa è storia - l'unico Paese europeo a potersi considerare vincitore fu proprio il Regno Unito. Nondimeno gli inglesi compresero quasi subito che l'agognato iniziale proposito di recuperare i possedimenti coloniali, fonti di tanta ricchezza interna, non avrebbe mai trovato l'avallo della comunità internazionale e insistere avrebbe potuto generare un pericoloso effetto "boomerang". Da qui la trasformazione dei possedimenti nel Commonwealth di Stati indipendenti comunque legati alla Corona.
Scelta sensata, ancorché imposta dalle circostanze. Le stesse circostanze, però, avrebbero dovuto suggerire anche di accettare l'invito ad entrare nella Comunità del carbone e dell'acciaio, come noto embrione della futura Cee. Ancora troppo forte e diffuso il sentimento di mondialismo per "ridursi" a mera espressione di una realtà continentale e lo spocchioso atteggiamento, nonostante i preziosi consigli provenienti da "quasi" tutti gli angoli d'Europa, fu reiterato anche nel 1955 dal mediocre Primo Ministro Eden con il rifiuto di partecipare alla Conferenza di Messina, prodromica del Trattato di Roma che istituì la Cee e l'Euratom.
Il suo successore, Harold Macmillan, cercò di correre ai ripari avendo ben chiaro l'errore commesso e il quadro internazionale che andava delineandosi con il continuo declino della Gran Bretagna e l'ascesa della Cina. Non gli sfuggiva, inoltre, la necessità di sviluppare un più vantaggioso interscambio commerciale con i Paesi europei ed "equilibrare i rapporti" con gli Stati Uniti, che vedevano comunque il suo Paese in una posizione di subalternità.
Obiettivi perseguibili solo con l'adesione alla Cee, richiesta nell'estate del 1961 e supportata dal pieno sostegno di Germania Ovest, Italia, Paesi del Benelux e, oltre oceano, anche dal neo presidente Kennedy, che sapeva guardare lontano e non disdegnava una Gran Bretagna "forte" all'interno della Cee, favorendo proprio "l'equilibrio dei rapporti" agognato da Macmillan. Più lungimirante di tutti, però, fu De Gaulle, che cinicamente stoppò le ambizioni inglesi per ben due volte, nel 1963 e 1967.
De Gaulle doveva tutto agli inglesi, nondimeno rinunciò a ogni forma di gratitudine, asserendo - cosa comunque vera - che la Gran Bretagna aveva chiesto di aderire alla Comunità europea non perché ne condividesse i principi ma solo perché con l'acqua alla gola, considerandola "un'ancora di salvataggio". La sua idea di Europa, in realtà, mal si conciliava con l'ingresso della Gran Bretagna, tanto più se gradito agli USA, perché prevedeva il primato della Francia sugli altri Paesi e un solido asse tra Parigi e Bonn (all'epoca la Germania era ancora divisa).
Bisognerà attendere il 1973 per l'agognato via libera e, nel frattempo, a causa dell'ostracismo francese supinamente assecondato dagli altri Paesi della Cee, il già marcato euroscetticismo degli inglesi si acuì non poco, soprattutto nelle fasce meno acculturate e più convintamente nazionaliste. Gli euroscettici non hanno mai cessato di sobillare le forze politiche per recuperare la "dignità perduta" e nel 2010, con il ritorno al potere dei conservatori, trovarono terreno fertile per dare linfa alle proprie rivendicazioni.
Il 23 giugno 2016, il 52% degli elettori britannici votò per l'uscita del Paese dall'Unione europea, avviando quel processo di "allontanamento" ancora in corso, con effetti devastanti per la gli affari interni e soprattutto per l'Irlanda del Nord.
Gerry Adams capì subito la gravità del problema e dichiarò che "Il governo britannico ha perso ogni mandato per rappresentare gli interessi economici e politici della gente in Irlanda del Nord".
Il timore di Adams e di quasi tutti i nord-irlandesi, ivi compresi quelli fedeli alla Corona, non era campato in aria. Il confine "formale" con il resto dell'isola (e quindi con l'Europa) si sarebbe trasformato d'imperio in un confine reale che avrebbe previsto posti di blocco alla frontiera, controlli doganali, passaporti, difficoltà di accesso per le merci, aumenti smisurati e incontrollati del costo della vita in virtù delle inevitabili restrizioni. Tutto ciò contraddiceva pienamente quanto sancito dagli Accordi del Venerdì Santo e di Saint Andrew, grazie ai quali era cessata la lotta armata. Non a caso la maggioranza degli elettori nordirlandesi si era schierata contro la Brexit e il segnale fu subito recepito dai tecnocrati di Bruxelles che, grazie anche alle pressioni del governo dell'Eire, decisero di preservare l'Irlanda del Nord dal confine rigido col resto d'Europa.
Nell'aprile del 2017, il Primo Ministro Theresa May sottoscrisse un accordo con l'Unione Europea per mantenere il Regno Unito all'interno di un'unione doganale finché non fosse stato trovato un accordo per evitare la costituzione di un confine rigido tra Irlanda del Nord e Repubblica d'Irlanda, ma l'accordo non fu mai ratificato dal Parlamento inglese. I continui insuccessi di Theresa May nel tentare di favorire una Brexit "morbida", soprattutto non penalizzante per i nord-irlandesi, la indussero a dimettersi nel giugno del 2019.
Le subentrò l'ipernazionalista Boris Johnson, tra i principali sostenitori della Brexit, che entrò a "carrarmato" sui protocolli che riguardavano la tutela dell'Irlanda del Nord, trasformandoli in carta straccia e minacciando l'uscita senza accordo il 31 ottobre 2019 se non se ne fosse trovato uno soddisfacente (per lui, ovviamente).
Seguirono mesi di difficili trattative, caratterizzate anche da un colpo di mano senza precedenti: nell'agosto del 2019 Boris Johnson sospese il Parlamento fino al 14 ottobre per impedire ai deputati di trovare una intesa, vanificando i suoi propositi di uscire dall'Unione senza un accordo di tutela per il Nord Irlanda. Essendo stato fissato al 31 ottobre il termine ultimo per la definizione dell'eventuale accordo, infatti, con solo due settimane a disposizione i parlamentari non avrebbero avuto nemmeno il tempo di avviare un discorso.
Il 31 gennaio 2020, pertanto, il Regno Unito lasciava l'Ue, con un periodo di transizione di 11 mesi, durante il quale tutto sarebbe rimasto come prima.
Iniziano altre snervanti e complesse trattative per salvaguardare soprattutto i diritti dei nord-irlandesi, almeno sotto il profilo commerciale, mentre in tutta l'Inghilterra incomincia una fase recessiva che s'ingigantisce anche a causa dei devastanti effetti provocati dalla pandemia.
Molte aziende chiudono; molte multinazionali si trasferiscono altrove; la disoccupazione cresce incontrollata e con essa il costo della vita. Gli inglesi incominciano a rendersi conto di aver fatto una sciocchezza, anche perché acquisiscono crescente consapevolezza, cosa trasparsa subito nelle analisi effettuate dagli osservatori stranieri, che sono state le fasce meno acculturate e gli anziani a favorire la Brexit: i giovani e le persone culturalmente evolute, in massa, avevano sostenuto il remain.

SI TORNA A COMBATTERE

Nel Nord Irlanda le tensioni sociali si acuiscono all'improvviso in virtù degli accordi di tutela che consentono il libero commercio con l'Eire, superando le barriere imposte dalla Brexit. I lealisti temono che si creino i presupposti per la riunificazione dell'isola, notando che in campo cattolico siffatta "speranza" aleggia con crescente convincimento, favorita dalla pressante e rinnovata azione politica del Sinn Féin, che vede sensibilmente aumentare i suoi consensi.
Nel mese di aprile 2021, per fare pressioni sul Governo affinché fosse preservato il confine rigido, avviarono una feroce campagna di violenze contro i reparti della polizia. Poi, però, inevitabilmente, ripresero gli scontri anche tra le opposte fazioni, condannate da tutti i partiti politici. Le trattative, intanto, proseguivano con ritmo serrato, in un caos di difficile decantazione perché caratterizzato dalle continue rivendicazioni, non scevre di lobbismo, avanzate da chiunque si sentiva minacciato dai provvedimenti adottati, inevitabilmente destinati ad accontentare pochi e scontentare molti, con continui ribaltamenti degli umori dopo ogni rivisitazione, essendo impossibile trovare una soluzione al problema in un contesto che non prendeva in considerazione l'unica opzione in grado di sanare ogni controversia: la riunificazione dell'Irlanda.

ACCORDI DI WINDSOR E PROSPETTIVE FUTURE
Il 27 febbraio 2023 i giornali di tutto il mondo titolano a caratteri cubitali che è stato trovato un accordo sull'Irlanda del Nord "tra Regno Unito e Unione europea". Già l'impostazione trionfalistica dell'annuncio, pressoché unanime, lascia l'amaro in bocca. Due soggetti si mettono d'accordo sulle sorti di un intero popolo, in barba ai tanti trattati nei quali è scritto che nulla sarebbe stato deciso senza l'assenso dei diretti interessati. L'amaro si trasforma in fiele leggendo i punti dell'accordo, che fanno assomigliare i trionfalistici titoli dei quotidiani a quegli ingannevoli slogan pubblicitari che inducono i consumatori fessacchiotti a prendere lucciole per lanterne.
Il premier Rishi Sunak e il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen s'incontrano nei pressi del castello reale inglese e suggellano quello che viene definito, con abile e allo stesso tempo sconcertante fantasia descrittiva, "Windsor Framework", ossia un quadro strutturale provvisorio, necessitante di futuri aggiustamenti: "corridoio verde" per la libera circolazione delle merci dal Regno Unito verso Belfast, senza ostacoli burocratici, accordi doganali e altri impedimenti; "corridoio rosso" per le merci esportate dall'Irlanda del Nord verso i Paesi dell'Unione, in modo da preservare l'integrità del mercato unico europeo. Bontà loro, ai nord irlandesi è assicurato l'accesso ai beni essenziali del Regno Unito, tra i quali le medicine. L'ultimo punto è un vero pateracchio: le leggi europee continueranno ad applicarsi in Irlanda del Nord, ma il Parlamento nordirlandese potrà usare "un freno di emergenza" (testuale) in caso di provvedimenti che ne possano minare l'autonomia. E cosa succederebbe dopo aver tirato il freno? Ursula von der Leyen non poteva essere più chiara: "La Corte di Giustizia europea avrà l'ultima parola sulle dispute". Tanto vale non tirarlo proprio il freno, quindi, per evitare di andare a sbattere contro qualche ostacolo. Sic est. Quando si conclude la stesura di questo ultimo capitolo dedicato alla storia d'Irlanda non ci è dato sapere quali saranno gli sviluppi del "Framework". Si sa solo che da un lato Boris Johnson sta affilando le armi per tornare alla guida del Paese, sabotare gli accordi di Windsor e riportare l'Irlanda del Nord nell'alveo della Corona senza divagazioni europeiste. In Irlanda, invece, le due regine del Sinn Féin, Mary Lou McDonald, dal 2018 presidente del partito, e Michelle O'Neil, dal 2017 leader nel Nord dell'isola, s'impegnano senza risparmio, con determinazione e grande forza di volontà, ben sapendo che ogni giorno devono dimostrare di essere all'altezza dei giganti di cui hanno preso il posto, Gerry Adams e Martin McGuinnes. Con il cuore che batte forte sentono sempre più vicino il giorno che consentirà anche a loro di entrare alla grande nei libri di storia, grazie a quel referendum che sancirà la riunione coi confratelli dell'Eire. Non sanno ancora e nemmeno ci pensano, anche perché non hanno certo avuto il tempo di leggere i saggi di Jacques Monod, che a volte caso e necessità si sposano, contribuendo a risolvere delicati problemi. In questo caso l'aiuto giungerebbe da chi meno potessero aspettarselo: il popolo inglese.
Milioni di persone, avvilite tanto dalla contingenza socio-politica e dai nefasti effetti della Brexit quanto da quello che sempre più spesso viene definito come un "fardello", si convincono con crescente intensità che sarebbe proprio il caso di rientrare nell'Unione europea e che vi sia tutto da guadagnare, anche per loro, con la riunificazione dell'Irlanda. I lealisti nordirlandesi se ne facessero pure una ragione, senza perdere tempo con inutili proteste o controproducenti azioni delittuose: non ci sarebbe partita, infatti, in una lotta armata contro forze regolari irlandesi senza l'aiuto dei super addestrati soldati inglesi. Indipendentemente da ciò che sarà deciso a Londra, comunque, il sogno di un'Irlanda unita è destinato a trasformarsi in realtà, perché il cammino intrapreso dal rinnovato Sinn Féin guidato da due fantastiche donne e opportunamente supervisionato, con estremo tatto e delicatezza, dall'ultimo Eroe di un mondo che sa d'antico, è inarrestabile. It's time to change, affermano con veemenza a Belfast e a Derry le nuove leve del repubblicanesimo indipendentista. A Nation Once Again si canta ancora nei pub frequentati dai vecchi che portano nel corpo e nell'anima le ferite di mille battaglie.
Tá sé in am don Athrú, gridano giovani e anziani, replicando nella lingua degli avi il nuovo slogan, opportunamente trascritto dappertutto, affinché fosse ben chiaro che la strada da percorrere è già asfaltata. All'insegna di quel motto, auspicio di un futuro rafforzato dal meraviglioso passato che si perde nella notte dei tempi, un intero popolo spezzerà le catene e marcerà, compatto, verso quella meravigliosa radura che si chiama "Libertà".



Note:
1 Il pazzesco provvedimento ricalca quanto recentemente accaduto in Italia con il Superbonus 110%, sano nella forma e malato nella sostanza, avendo favorito solo gli speculatori e i truffatori. Nel Nord Irlanda la protagonista dello scandalo fu il primo ministro Arlene Foster, leader del Partito Unionista Democratico, che nel 2012 svolgeva il ruolo di ministro responsabile del progetto. I proprietari delle case, di fatto, furono incoraggiati a efficientare i sistemi di riscaldamento passando dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, ricevendo dei sussidi in base ai consumi, senza limiti di contenimento.
2 Sotto il profilo politico, invece, assume particolare rilevanza "il viaggio" percorso fino a S.Andrew, in Scozia, con Ian Paisley, per sottoscrivere il nuovo accordo. Non sapremo mai cosa si siano detti i due durante il viaggio o se effettivamente si siano parlati. Ma dopo aver visto il film di Nick Hamm del 2016, intitolato appunto "Il Viaggio", vogliamo credere che effettivamente quel dialogo "immaginifico" sia reale. In ogni caso hanno viaggiato insieme e gli accordi da loro siglati, più ancora di quelli del Venerdì Santo, hanno consentito di far tacere le armi. Non è ancora tutto , ma è già tanto.

Bibliografia essenziale. (In ordine alfabetico per il nome di battesimo dell'autore; l'anno di edizione può essere diverso da quello reperibile in commercio in funzione di nuove edizioni; i titoli scritti in inglese non hanno avuto edizioni in italiano, ma sono facilmente reperibili in lingua originale nei principali web store).
Penetrare nello spirito di un popolo unico al mondo è impossibile senza conoscerne gli aspetti reconditi legati tanto al mito e alle leggende quanto alla storia. A prescindere dall'impossibilità materiale di citare tutti i testi che andrebbero letti per viaggiare tra spazio e tempo, ritengo tale fatica inutile perché la materia è così complessa da risultare fruibile solo da chi fosse in grado di sviluppare autonomamente la passione necessaria per dedicarsi al faticoso (ma stupendamente fascinoso) approfondimento. Leggendo i testi segnalati, se dovesse insorgere realmente "la passione", ciascuno troverà facilmente la strada per entrare in contatto con i Túatha Dé Danann, con i Re Supremi, con il celtismo, con lo spirito di Beltane, Imbolc, Lughnasadh e Samhain, rendendosi conto di diventare un uomo migliore a mano a mano che colmi le lacune con tutto ciò che si era perso fino all'inizio del viaggio.
Bobby Sands, Un giorno della mia vita, Universale Economica Feltrinelli, 1996
Bobby Sands, Scritti dal carcere. Poesie e prose, Pagina 1, 2020
Gerry Adams, Free Ireland: Towards a Lasting Peace, Brandon/Mount Eagle Publication, 1995
Gerry Adams, Before the Dawn: An Autobiography, O'Brien Press, 1996
Gerry Adams, The new Ireland - A vision for the future, Brandon Books, 2005
Gerry Adams, A Farther Shore: Irelands Long Road to Peace, Random House Usa Inc, 2005
Paddy Armstrong, Life after life: a Guildford Four Memoir, Gill Books, 2017
Paul Hill, Anni Rubati, Dalai Editore, 1995
Riccardo Michelucci, Storia del conflitto anglo-irlandese. Otto secoli di persecuzione inglese, Odoya 2009
Riccardo Michelucci, Guerra, Pace e Brexit - Il lungo viaggio dell'Irlanda, Odoya, 2022
Silvia Calamati, Qui Belfast. Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord, Red Star Press, 2013

Filmografia essenziale
(In ordine alfabetico per titolo, seguito dal nome del regista e dall'anno di uscita). Nell'elenco sono compresi film in grado di far comprendere il sostrato di fattori sociali, spirituali e culturali di un popolo, senza censure partigiane, pur essendo l'autore di questo saggio uomo di parte. Sono stati esclusi solo alcuni film palesemente fuorvianti, per lo più di produzione statunitense, realizzati ad arte per sostenere la Gran Bretagna nel dominio dell'Irlanda del Nord, e quindi realizzati con il chiaro intento "partigiano" di distorcere la realtà dei fatti. Si tenga presente che, nella cospicua produzione cinematografica statunitense, ancorché pregna di prodotti eccelsi, questa deleteria propensione ingannatoria è comunque diffusa. Basti pensare ai tanti film che, abilmente diretti e magnificamente interpretati da bravissimi attori, inducono all'uso delle armi e all'abuso di psicofarmaci e di bevande alcoliche. Tutti film lautamente finanziati dalle multinazionali settoriali.
71, Yann Demange, 2014 / Amiche, Pat O'Connor, 1995
Ballando a Lughnasa, Pat O'Connor, 1998 / Barry Lyndon, Stanley Kubrick, 1975
Belfast, Kenneth Branagh, 2021 / Bloody Sunday, Paul Grengrass, 2002
Breakfast on Pluto, Neil Jordan, 2005 / Calvario, John Michael McDonagh, 2015
Doppio gioco, James Marsh, 2012 / Evelyn, Bruce Beresford, 2002
Fifty dead men walking, Kary Skogland, 2008 / Gli spiriti dell'isola, Martin McDonagh, 2022
Hunger, Steven Rodney McQueen, 2008 / Jimmy's Hall, Ken Loach, 2014
Il campo, Jim Sheridan, 1990 / Il mio piede sinistro, Jim Sheridan, 1989
Il segreto, Jim Sheridan, 2016 / Il vento che accarezza l'erba, Ken Loach, 2006
Il viaggio (The journey), Nick Hamm, 2017 / La figlia di Ryan, David Lean, 1970
La moglie del soldato, Neil Jordan,1992 / Le ceneri di Angela, Alan Parker, 1999
L'ombra della vendetta, Oliver Hirshbiegel, 2009 / Michael Collins, Neil Jordan, 1996
Nel nome del padre, Jim Sheridan, 1993 / Omagh, Pete Travis, 2004
Philomena, Stephen Frears, 2013 / The boxer, Jim Sheridan, 1997
The Commitments, Alan Parker,1991/ The General, John Boorman, 1998
The snapper, Sthepen Frears, 1993 / Una scelta d'amore, Terry George, 1996
Veronica Guerin - Il prezzo del coraggio, Joel Shumacher, 2003

(Capitoli precedenti: Confini nn. 106, 107, 109, 111, 112)
   
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