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Due vecchi
compagni di
scuola
passeggiavano,
uno con le mani
in tasca e
l'altro, il più
problematico,
con le mani
dietro la
schiena. Ma
c'era un motivo
per il
comportamento
del secondo:
egli, infatti,
era docente di
filosofia e si
atteggiava a
pensatore,
mentre il primo,
un architetto,
teneva molto a
comparire
scanzonato e
libero. In
realtà la cosa
era diversa al
punto da poter
invertire i
giudizi ora
espressi e
attribuire il
primo al secondo
e viceversa.
Vallo a capire.
Ma non era
questo
l'argomento
della loro
pacata
conversazione.
essi erano
reduci da una
cena, una
riunione
conviviale tra
tutti i compagni
di scuola
indetta da
volenterosi e
sfaccendati
pensionati che
s'erano fatti
carico di una
infinità di
telefonate e
prenotazioni al
ristorante con
successive
disdette e
ulteriori
tardive
conferme.
Occasione della
rimpatriata era
il
festeggiamento
dei 50 anni
dalla maturità
classica,
appuntamento che
segnava una
tappa
importante, a
conclusione
degli studi,
prima di
iniziare
l'università e
poi la
professione.
Bisogna
anticipare che
questo cursus
honorum era
quasi obbligato
perché le
famiglie di
provenienza,
tutte saldamente
borghesi, non
potevano neppure
immaginare
percorsi più
eterogenei o
creativi.
La loro vita
era, in quei
fatidici 50 anni
trascorsi,
radicalmente
cambiata perché
da un percorso
obbligato su
solidi binari,
avevano, con la
maturità,
raggiunto la
stazione di
testa nel
deserto, oltre
la quale si
estendeva
all'infinito il
periglioso mare
delle scelte,
ergo delle
rinunce, a
cominciare dalla
scelta della
facoltà da
frequentare, che
offriva non
poche
alternative e
paura nello
scegliere.
Essi comunque
ora
festeggiavano, o
avevano da poco
finito di
festeggiare,
quell'avvenimento
così importante,
seduti attorno
ad un grande
tavolo quadrato
che una immensa
tovaglia bianca
dissimulava
quasi fosse un
tavolo intero e
non una
accozzaglia di
tavoli e tavole
di ogni specie e
dimensione, ma
questo non
importa se non a
quanti possano
scorgervi una
scivolosa
metafora della
diversità celata
sotto quel telo
bianco, metafora
che chi scrive
avrebbe fatto
meglio a non
esplicitare,
concedendole la
fragranza della
scoperta
multipla e
convergente.
Al primo
incontro si
erano guardati
di soppiatto,
investigandosi
l'un l'altro sul
biancore dei
capelli, le
geografie delle
rughe, il
decadimento
inevitabile. Nel
corso della
serata
l'atmosfera si
era però sciolta
e quasi tutti
dismisero quella
faccia perplessa
che avevano
all'inizio del
pranzo che
segnalava il
timore di
doversi
sottomettere ad
un esasperante
amarcord, con
imitazione dei
professori,
quelli più
idonei ad essere
presi per i
fondelli, a
ripercorrere le
battute e gli
avvenimenti
allora
memorabili
legati a gite
scolastiche,
tutto un
armamentario di
cosa che in quei
5 decenni si
erano scolorite
e avevano perso
del tutto la
freschezza dei
tempi in cui
vennero create e
godute.
Con uno
scampanellare di
coltello sul
bordo del
bicchiere uno
degli
organizzatori,
che già pareva
aver ricevuto
una apposita
investitura di
primus inter
pares, porse i
saluti,
ringraziò i
presenti, fece
voti affinché
fossero lasciati
fuori dal
ristorante i
cattivi
pensieri, i
brutti ricordi e
ordinò al
caposala che si
aprissero le
danze
consistenti in
un invitante
timballo di
riso.
Seguì un altro
scampanellio del
servente, il
capo
cerimoniere,
quello che aveva
avuto la bella
iniziativa, con
il quale
consentiva di
cominciare a
mangiare perché,
essendo in venti
commensali il
piatto si
sarebbe
certamente
raffreddato
prima che tutti
fossero stati
serviti.
Incoraggiati da
cotanta saggezza
i primi si
avventarono sul
loro timballo e,
a guardare bene,
senza alcun
ripensamento,
mentre invece
per quelli in
giacca e
cravatta, più
propensi ad
aspettarsi una
serata tra
vecchi
gentiluomini,
l'avvio della
cena sembrò più
sofferto.
La serata
trascorse senza
traumi, cominciò
con l'elencare i
nomi dei
compagni
assenti,
chiedendosi come
mai avessero
declinato
l'invito,
proseguì con
fugaci ricordi
dei quattro
assenti per
motivi legati al
non sempre
perenne battito
del cuore,
evitando
schieramenti e
contrapposizioni
su temi
scottanti di
attualità e men
che meno
politici tout
cour.
Con
l'immancabile
sincero impegno
di ripetere
altre volte un
incontro così
ben riuscito,
intorno alla
mezzanotte, la
comitiva si
sciolse, con
grande strepito
di auto in
manovra, di
sportelli che
sbattevano di
ripetute offerte
di dare un
passaggio, fino
a quando il
cameriere,
dismesso l'abito
professionale,
con un soprabito
a scacchi rossi,
accostò il
cancello quasi
sfiorando
l'ultima auto
che usciva.
I nostri due
compagni
uscirono
appiedati e in
coppia si
diressero alle
rispettive
abitazioni non
lontane dal
ristorante,
passeggiando
lentamente,
nelle posture
già descritte,
continuando una
conversazione
garbata ma ferma
da parte di
ciascuno che era
iniziata quando
ancora avevano i
tovaglioli sulle
ginocchia,
seduti al
tavolo.
Argomento: la
mafia.
Uno,
probabilmente
l'architetto, ne
tratteggiava i
caratteri
solamente
criminali,
l'altro, invece
ne estendeva il
fondamento nel
contesto socio
economico.
Le due posizioni
non erano di per
se contrapposte,
quanto piuttosto
ambedue
profondamente
vere e
integrantesi a
vicenda e questo
era un motivo in
più perché,
cammin facendo,
i toni della
contrapposizione
divenissero via
via sempre più
decisi,
l'eloquio sempre
più veloce e
tagliente, le
prove a
suffragio delle
due tesi sempre
più estreme,
finendo col
confondersi,
avvilupparsi in
se stesse,
invertirsi
addirittura, al
punto che l'uno
sposava le tesi
dell'altro che
gli venivano
offerte per
assurdo e
l'altro si
rabboniva con lo
stratagemma "ma
tu stesso hai
detto poco fa".
La strada era
semibuia, come
si confà a
quelle della
loro città.
Anche al centro,
vaste zone di
buio totale
erano generate
dall'essere i
lampioni del
tutto affogati
tra le fronde
dei ficus mai
potati. In
questo gioco di
alternanza di
luce e buio, che
tanto pareva
essere la scena
delle
contrapposte
tesi, apparve la
figura di un
uomo che
procedeva verso
di loro.
L'età, la
maniera
particolare di
camminare, la
capigliatura
nera corvina
malgrado l'età,
una certa aria
scanzonata che
sprigionava
quando
avvicinatosi
appariva in
piena luce, lo
fece ravvisare
come uno dei
compagni assenti
alla cena.
Si stupirono che
si dirigesse a
quell'ora verso
il ristorante,
ma fattosi
ancora più
vicino, i due lo
riconobbero
senza alcun
dubbio: era
proprio lui:
Filippo
Il compagno di
ginnasio e di
liceo che già
allora
manifestava una
qualche tendenza
ad estranearsi
rispetto alla
vita degli studi
a favore delle
partite a calcio
che disputava
con violenza e
indifferenza
alle regole,
della caccia con
cui giustificava
ripetute
assenze, del
parlare
grossolano,
anche se pieno
di sottigliezze
e astuzie nel
sostenere i suoi
principi.
Col tempo
Filippo sarebbe
passato alle
cronache per
essere il capo
mandamento di
uno dei
quartieri più
violenti della
citta, e non
passava anno
senza che la
magistratura non
si occupasse con
zelo della sua
posizione
criminale di
capo.
Incrociandosi a
pochi metri
FILIPPO fu il
primo a
salutare, ma in
assoluto
silenzio,
agitando la mano
e poi l'intero
braccio senza
guardarli in
viso, come a non
volerli
coinvolgere e al
tempo stesso non
volendo sembrare
indifferente
all'incontro che
si stava
svolgendo dopo
50 anni con
compagni cui era
molto legato per
via di episodi
giovanili che li
avevano
coinvolti con
reciproca
fiducia e
divertimento.
I due,
intimiditi da
quel saluto,
risposero con
eccessivo
imbarazzo, al
punto da non
farsi neanche
vedere dal loro
solitario
compagno e così,
rispondendo
quasi
privatamente al
suo saluto,
ripiombarono nel
buio dei
lampioni sepolti
tra i rami. |
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CULTURA |
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