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Per proprietà
collettiva delle
terre si
intendono tutte
le forme
alternative alla
piena proprietà
privata,
ascrivibili ad
una molteplicità
di persone
(spesso
indefinite nel
numero) ma non
riconducibili
alla proprietà
pubblica vera e
propria.
Sebbene non
esista una
definizione
normativa dei
"domini
collettivi", con
tale termine,
generalmente, si
indica una
situazione
giuridica in cui
una determinata
estensione di
terreno (di
proprietà sia
pubblica che
privata) è
oggetto di
godimento da
parte di una
collettività
determinata,
abitualmente per
uso
agro-silvo-pastorale.
Le difficoltà di
inquadramento
sistematico dei
domini
collettivi,
appartenenti
originariamente
ad una comunità,
derivano anche
dall'irriducibilità
dell'istituto
all'attuale
concezione
privatistica, di
derivazione
romanistica,
basata sulla
proprietà
privata.
La proprietà
collettiva viene
normalmente
ricondotta, da
un punto di
vista formale,
ad una proprietà
privata
(tipicamente di
derivazione
nobiliare) od
una proprietà
pubblica
(demaniale e
non) sulla quale
però sussistono
diritti d'uso
civico che di
fatto ne
trasferiscono il
possesso (in
parte o del
tutto) a favore
di terzi
individuati in
base ad una
definizione
collettiva (come
può essere
quella degli
abitanti,
attuali o “di
origine", di una
certa località o
paese).
L'esercizio di
questi diritti
può essere
demandato a
particolari
organizzazioni
(Università
Agrarie,
Comunità,
Associazioni o
Enti) o alle
Amministrazioni
Comunali
(sebbene la
collettività
degli aventi
diritto non
coincida
necessariamente
con gli abitanti
di un comune).
Tuttavia non
tutti i diritti
di uso civico
esistenti
necessariamente
derivano da
un'antica
condizione di
vera proprietà
collettiva,
potendo altresì
derivare anche
da altre forme
di “possesso
misto", ossia
condiviso già
all'origine tra
comunità rurali
e famiglie
nobiliari oppure
istituzioni (in
special modo
ecclesiastiche).
Dopo una lunga
gestazione,
finalmente, la
Legge del
20/11/2017 n°
168, (G.U.
28/11/2017)
riconosce i
domini
collettivi come
ordinamento
giuridico
primario delle
comunità
originarie (art.
1); offrendo una
chiara
definizione dei
beni collettivi
(art. 3).
Nel testo
normativo si
precisa inoltre
che la
Repubblica
riconosce e
tutela i diritti
di uso e di
gestione dei
beni di
collettivo
godimento
preesistenti
allo Stato
italiano.
Il tema della
”proprietà
collettiva” non
è mai stato
oggetto di studi
della dottrina
penalistica, per
cui, prendendo
spunto
dall’elaborazione
teorica di altri
settori
disciplinari, è
possibile
proporre una
breve
riflessione del
complesso tema
in ossequio ai
principi che
caratterizzano
l’ordinamento
giuridico
penale; nel
tentativo di
verificare se
sussistano,
nell’ampio
panorama della
legislazione
vigente, norme
capaci di
offrire una
tutela penale
dei predetti
beni. In più
occasioni si è
tentato di
creare un
collegamento
dell’istituto
degli usi civici
con la categoria
dei beni comuni.
Tale
correlazione può
rappresentare un
nuovo e
qualificante
passo in avanti
rispetto alla
possibilità di
applicare leggi
punitive; ciò al
fine di
ricondurre tutti
i beni
fondamentali e
di godimento
collettivo,
strumentali alla
tutela della
persona umana
verso la
concreta
affermazione del
principio
personalistico
contenuto nella
Costituzione
italiana e nelle
fonti europee
del diritto. Il
diritto penale è
ontologicamente
chiamato a
interrogarsi sui
nuovi temi che
emergono nel
mutevole
contesto
storico-sociale
allorquando è
avvertita la
necessità di
offrire una
specifica
protezione
normativa.
Storicamente con
la denominazione
“beni di
godimento
comune” ci si
riferisce ai
beni e alle
risorse che
gruppi di
individui su un
determinato
territorio
condividono,
utilizzano,
senza alcun
criterio di
esclusività ma
in modo
comunitario e
non egoistico.
La ricerca del
profilo di
rilevanza
giuridico-penale
dei beni de
quibus risiede
sull’intimo
legame che li
lega alla
persona umana e,
ancora di più,
sulla
possibilità che
il godimento di
quei beni possa
incidere sulla
crescita e sul
benessere della
persona. Ciò al
fine di
assicurare il
libero esercizio
dei diritti
fondamentali,
anche nella
prospettiva di
garantirne
l’integrità di
godimento per le
future
generazioni;
prescindendo dal
concetto di
proprietà o di
utilità
egoistica e da
tutte quelle
categorie
giuridiche ed
economiche che
non siano
funzionali allo
scopo
collettivo.
La Suprema
Corte, peraltro,
afferma il
principio di
diritto secondo
il quale un bene
si definisce
comune quando,
per le sue
intrinseche
connotazioni, a
prescindere dal
titolo di
proprietà, sia
«strumentalmente
collegato alla
realizzazione
degli interessi
di tutti i
cittadini».
Una volta
delineato il
parametro
rappresentativo
della categoria
dei beni di
godimento
comune, occorre
individuare le
forme più
adeguate di
tutela per
assicurarne
l’integrità
dagli abusi,
tenendo presente
di dover
debitamente
bilanciare
esigenze
collettive con
esigenze
individuali.
Questo nuovo
modo di
inquadrare anche
il profilo
patrimoniale
della vicenda
deve tenere
conto del fatto
che, sia pure
dotata di valore
patrimoniale
intrinseco, la
categoria dei
beni de quibus
non può
diventare
oggetto di
gestione in una
logica di
profitto, ma le
risorse naturali
devono rimanere
ancorate al
concetto di
fruizione
sociale libera
ed
incondizionata.
Nel senso che
l’attenzione del
giurista deve
spostarsi dalla
tutela del
titolare del
bene alla
esclusiva tutela
del bene stesso.
Cosicchè, la
salvaguardia
dell’integrità
del bene non è
volta a
garantire
l’integrità del
diritto di
proprietà, ma
semplicemente
che il bene deve
essere tutelato
in quanto tale e
se mai esistesse
un titolo di
proprietà
esclusivo su
quel bene, lo
stesso soggetto
titolare dovrà
goderne in una
dimensione
comunitaria e
non più
egoistica,
essendone il
primo obbligato
di tutela. Il
tema dei beni di
godimento comune
non è estraneo
alla tradizione
storica e
sociale del
nostro paese,
perché la
categoria (non
essendo
collocabile né
tra i beni
pubblici né tra
quelli privati)
affondava le
proprie radici
nel diritto
medioevale ed in
particolare
nella materia
dei cc.dd.
diritti civici.
A partire da
quegli anni si
assiste ad un
progressivo
consolidamento
degli “usi
civici”, diritti
che potevano
essere
esercitati su
beni privati, e
su beni che
appartenevano
all’indistinta
collettività
(“demanio
civico”) ovvero
la proprietà
collettiva.
In Italia il
riordino degli
usi civici e il
definitivo
riconoscimento
legislativo
della proprietà
collettiva
avveniva con la
legge n. 1766
del 16 giugno
1927 (in G.U. n.
228 del 3
ottobre 1927),
anche in
funzione di
controllo della
proprietà
terriera, la cui
amministrazione
veniva affidata
a Comuni e
Frazioni. E’
opportuno, a
questo punto,
chiedersi se
esistono
obblighi
costituzionali
di tutela penale
dei beni de
quibus.
La collocazione
concettuale
della questione
dei beni di
godimento comune
nell’ambito
dell’ordinamento
giuridico
italiano trova
oggi degli
agganci
normativi e di
valore
importanti che
possono favorire
lo sviluppo del
tema. Tuttavia
molti sono gli
aspetti
problematici sul
terreno del
diritto penale,
poiché
l’intervento
punitivo ha
bisogno di una
severa selezione
degli interessi
da tutelare e
soprattutto ha
necessità di
verificare nel
concreto il
bisogno di una
sanzione penale.
Senza una reale
esigenza di
intervento lo
sforzo di
immaginare una
disciplina
normativa
rimarrebbe
soltanto
un’espressione
simbolica e
andrebbe
semplicemente ad
aumentare la
quantità delle
leggi penali,
senza alcuna
concreta
utilità. Si
finirebbe anche
per
compromettere le
stesse premesse
costituzionali
del diritto
penale
rappresentate
dalla necessità
che la
limitazione
della libertà
personale, di
cui all’art. 13
Cost., possa
essere
immaginata
soltanto in
presenza di beni
giuridici di
rilevante
interesse per
l’ordinamento.
Occorre
riconoscere che
si tratta di un
progetto
complessivo di
incriminazione
che si pone in
controtendenza
con quello
sforzo di
riduzione
dell’area del
penalmente
rilevante
destinato a
razionalizzare
l’intervento del
legislatore in
materia
punitiva. Ecco
perché bisogna
superare prima
di ogni altra
cosa le
obiezioni di
opportunità e
necessità che
sempre
dovrebbero
motivare
l’azione del
legislatore in
materia penale.
Un percorso
normativo
costituzionalmente
orientato della
vicenda dei beni
di godimento
comune in
materia penale
non deve e non
può riguardare
unicamente il
profilo
repressivo
dell’intervento
legislativo. E’
necessario un
diritto penale
inteso come
“strumento di
dissuasione” che
valorizzi la
consapevolezza
nel destinatario
del precetto di
essere il
naturale
fruitore dei
vantaggi
derivanti dalla
tutela e dalla
salvaguardia di
quel bene. Per
affrontare
correttamente il
tema del
progetto di una
tutela penale
dei beni di
godimento comune
è necessario
utilizzare gli
strumenti
metodologici che
formano la
piattaforma
giustificativa
del diritto
penale moderno
che richiede la
qualificazione
del fatto come
tipico,
colpevole e
offensivo. L’offensività
è certamente il
punto di
partenza per
ogni previsione
normativa che
richieda
l’intervento di
una sanzione
penale. Un tale
impegno impone
l’esatta
individuazione
dei beni
giuridici
collettivi – non
diversamente da
quelli
individuali – ed
esige che il
bene venga
ricostruito con
un fisionomia
tale da renderlo
capace di essere
offeso nel
singolo caso
concreto. In
realtà il dato
sociologico che
sottende a
scelte di questo
tipo, parte dal
ragionevole
assunto che
nella società
capitalistica
postmoderna il
riconoscimento
di un interesse
comune va sempre
regolato
normativamente,
per evitare che
il generale
modello di
apprensione
egoistica lo
sottragga al
godimento
collettivo. Il
ricorso allo
strumento penale
deve prendere il
suo avvio dal
confronto dei
diritti di
libertà
individuali che
si presentano
sullo scenario
reale e che sono
posti in
comparazione. Il
legislatore
penale con
l’intervento
normativo riduce
di fatto l’area
di libertà della
persona e questo
sacrificio deve
necessariamente
offrire un
vantaggio per
altre forme di
libertà che
vengono in
questo modo
valutate come
prevalenti.
L’equilibrio è
dettato
dall’interesse o
dal dovere di
intervento che
deve attingere
alle regole di
convivenza
dettate dalla
Carta
costituzionale,
come proposte di
rafforzamento
della tutela di
beni. In tale
contesto i beni
de quibus sono
certamente tra
quelli che
ricevono diretta
attenzione dal
legislatore
costituente
perché sono
chiamati a
realizzare le
condizioni
essenziali di
vita della
persona umana.
La norma
giuridica, nella
specie penale e
sanzionatoria, è
di fatto
chiamata a
correggere gli
usi distorsivi
del godimento
del bene. Questa
è la ragione per
cui è necessario
l’intervento del
diritto penale,
con il
prevalente
proposito di
rafforzare
l’efficacia di
una norma
sociale che
garantisca il
godimento e la
conservazione
del bene, nella
prospettiva
funzionale di
crescita e di
benessere della
persona.
La risposta può
essere fornita
oltre che sul
piano della
rilevanza
costituzionale
dell’interesse
da proteggere
anche sul piano
della rilevanza
sociale dello
stesso. Il punto
di avvio della
ricerca della
matrice
costituzionale
della materia
non può che
essere l’art. 43
Cost. che, pur
non individuando
nominalisticamente
i beni, ne
prescrive
l’indirizzo di
fruizione e le
modalità di
gestione
comunitaria: «A
fini di utilità
generale la
legge può
riservare
originariamente
o trasferire,
mediante
espropriazione e
salvo
indennizzo, allo
Stato, ad enti
pubblici o a
comunità di
lavoratori o di
utenti
determinate
imprese o
categorie di
imprese, che si
riferiscano a
servizi pubblici
essenziali o a
fonti di energia
o a situazioni
di monopolio ed
abbiano
carattere di
preminente
interesse
generale».
Altro profilo
che invoca una
meditata
riflessione è
l’intreccio tra
la rilevanza
ordinamentale
del bene
giuridico e le
tecniche di
tutela contro
precise forme di
aggressione che
non potrebbero
essere adottate
se non
attraverso il
potenziamento
dell’opzione
penale. Data la
premessa è
possibile
individuare un
chiaro
collegamento,
operato dalla
normativa in
commento in tema
di domini
collettivi, con
la recente legge
22 maggio 2015
n. 68 che, come
è noto,
disciplina i
reati ambientali
e che si pone
come un valido
presidio
normativo idoneo
ad offrire una
tutela penale
dei predetti
beni. La
correlazione è
data dall’art 2
comma 1 lett. d)
della legge L.
20 novembre
2017, n. 168 in
cui si precisa
che: <<La
Repubblica
tutela e
valorizza i beni
di collettivo
godimento, in
quanto: (…….essi
costituiscono
basi
territoriali di
istituzioni
storiche di
salvaguardia del
patrimonio
culturale e
naturale>>. Ed
ancora, all’art.
3 comma 6 si
stabilisce
che:<<con
l'imposizione
del vincolo
paesaggistico
sulle zone
gravate da usi
civici di cui
all'articolo
142, comma 1,
lettera h), del
codice dei beni
culturali e del
paesaggio, di
cui al decreto
legislativo 22
gennaio 2004, n.
42,
l'ordinamento
giuridico
garantisce
l'interesse
della
collettivita'
generale alla
conservazione
degli usi civici
per contribuire
alla
salvaguardia
dell'ambiente e
del paesaggio.
Tale vincolo e'
mantenuto sulle
terre anche in
caso di
liquidazione
degli usi
civici>>.
E’ noto che le
fattispecie
introdotte dalla
nuova legge sui
reati ambientali
non stabiliscono
nuovi precetti
ed obblighi; ma,
in ossequio al
rapporto di
accessorietà
della sanzione
penale rispetto
al diritto
amministrativo
ambientale, il
legislatore ha
deciso di
disciplinare le
ipotesi
delittuose e
contravvenzionali
secondo lo
schema delle
norme penali in
bianco;
qualificando
come delitti o
contravvenzioni
le condotte di
dolosa
trasgressione di
vincoli
normativi già
esistenti. Così
operando si è
spostata
l'attenzione
dalla violazione
”formale” del
precetto alle
conseguenze
sull'ambiente
che la
violazione
stessa
determina.
Il diritto
penale dunque è
chiamato ad
intervenire dove
non viene
rispettato un
serio principio
di
autolimitazione
nello
sfruttamento
delle risorse,
un argine
all’abuso del
godimento del
bene. Quando si
affronta infatti
il delicato tema
dell’ambiente,
del paesaggio,
del patrimonio
architettonico o
anche della
stessa acqua,
aria, suolo
(quindi risorse
artificiali e
risorse
naturali) è
doveroso
considerare i
moderni sistemi
tecnologici di
aggressione a
tali beni che
spaziano da
alcune forme di
inquinamento
subdole (ad es.
sversamenti di
prodotti
cancerogeni,
sostanze
chimiche,
materiali
radioattivi in
discariche
autorizzate e
non), a forme di
danneggiamento
con mezz i
moderni (ad es .
onde
elettromagnetiche
ed altro). Non
si può
certamente
escludere che
tali pericolose
e devastanti
aggressioni del
bene ambientale
possano
realizzarsi
anche nelle
terre di
originaria
proprietà
collettiva.
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