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DOSSIER:
DIBATTITO SU
CONFINI |
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AD APOLLO
PREFERISCO
DIONISO |
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Non c'è che
dire. La rivista
nella sua
edizione è
arrivata al 50°
numero. Non è
poco e non è da
tutti editare
unicamente sul
web un periodico
cultural-politico
per oltre
quattro anni e
con un numero
rilevante di
pagine trovando,
peraltro, non
solo perduranti,
validi,
collaboratori
(immodestamente,
mi annovero tra
questi) ma
riuscendo anche
ad ospitare
illustri
personaggi che
non hanno
disdegnato il
sapore semplice
e genuino del
foglio nel
rappresentare il
loro pensiero.
No. Non è poco e
non è da tutti.
E di questo
dobbiamo
congratularci
con noi stessi
per essere
riusciti (quasi
sempre) sia ad
essere sulla
palla, come si
suol dire,
nonostante la
periodicità
mensile, sia ad
affrontare temi
di prospettiva
per fornire
(almeno a noi
stessi)
un'alternativa
al piattume
intellettuale
che ci circonda.
Al tempo stesso,
non è poco e non
è da tutti
acquisire e
man-tenere oltre
dodicimila
destinatari che
ricevono (e, in
caso di ritardo,
sollecitano) la
rivista; e di
ciò va dato
unicamente
merito al suo
ideatore, al suo
direttore, al
suo
capo-redattore,
funzioni tutte
rivestite
dall'amico
Angelo, che
attraverso il
suo acume
editoriale, la
sapiente
delineazione dei
temi proposti, i
suoi scritti
nonché la sua
capacità di
tessere e
mantenere
rapporti, è
riuscito a dare
valida ed
efficace forma e
sostanza ad un
prodotto, tutto
sommato,
virtuale.
Ma, dopo tanto
impegno profuso
nel lustro
appena
trascorso,
occorre, a mio
sommesso avviso,
avviare una
riflessione.
Nell'VIII canto
dell'Inferno1,
Dante e Virgilio
salgono
sull'imbarcazione
di Flegiàs per
essere condotti,
attraverso la
palude dello
Stige, verso le
mura della città
di Dite. Siamo
nel girone degli
iracondi e degli
eresiarchi.
Mentre stanno
attraversando la
palude, Dante
viene
apostrofato da
un'anima che si
aggrappa al
bordo della
barca e chiede
l'identità del
poeta avendo
intuito la
natura tutta
eccezionale del
trasporto: la
barca affonda
nell'acqua più
del solito e
l'anima ha
capito che
contiene un vivo
(che giunge
nell'inferno
prima del
tempo).
“Mentre noi
corravam la
morta gora,
dinanzi mi si
fece un pien di
fango,
e disse: "Chi
se' tu che vieni
anzi ora?"
Una gora, cioè
una parte
d'acqua tratta a
forza dal corso
di un fiume,
morta, cioè "cioè
non moventisi
con alcun corso",
specificò
Boccaccio nel
suo Commento
alla Divina
Commedia: un po'
come la politica
italiana. Nel
senso che, da
oltre
venticinque
anni, la
politikḗ ha
perso il suo
significato
originario
insieme alla
sottintesa
téchnē,
l'arte e la
tecnica; tratta
a forza da
grandi bacini e
tramutata in
piccoli e
raminghi rivi,
dopo un percorso
più o meno
lungo, scompare.
Un po' come quei
fiumi i quali
anziché sfociare
in mare,
svaniscono nel
deserto
lasciando,
tutt'al più,
delle pozze
stagnanti.
Agli inizi, per
un po', abbiamo
provato
(artigianalmente)
a vedere se quei
fiumi avessero
assunto
caratteristiche
carsiche; la
speranza era di
riuscire a
ritrovare la
vena e seguirla
fino all'approdo
in superfice,
sia pur a
lunghissime
distanze. Però,
abbiamo dovuto
costatare che
quei fiumi erano
definitivamente
scomparsi,
tranne le
pozzanghere
acquitrinose di
superficie.
E in quelle
pozze abbiamo
anche provato a
navigarci ma, al
pari di Dante
(Dio perdoni
l'accostamento),
la nostra
"barca" è stata
approcciata da
spiriti
infernali
imbrattati di
fango, come li
definisce Anna
Maria Chiavacci
Leonardi nel suo
commento alla
Commedia2,
che nel pur loro
stringato
interloquire,
hanno racchiuso
e racchiudono
una laconica
aggressività. "Chi
se' tu che vieni
anzi ora?"
Ma,
all'approccio, a
differenza di
Dante, non
abbiamo risposto
con analoga
aggressività
bensì con vana,
inutile,
disponibilità.
E, alla fine,
come il Sommo,
abbiamo dovuto
lasciare le
anime morte (è
bandito ogni
sapore
tautologico) ad
azzuffarsi tra
loro; un
contesto
iracondo, quello
della Commedia,
dove primeggia
Filippo Argenti
che addirittura
arriva a
sbranarsi da
solo:
"Quei fu al
mondo persona
orgogliosa;
bontà non è che
sua memoria
fregi:
così s'è l'ombra
sua qui
furiosa."
Orgogliosa sta
per boriosa. Eh
sì! A distanza
di settecento
anni, si può
ancora notare la
efficace
lucidità del
grande Poeta che
riprende a
navigare
commentando
quanto ha appena
lasciato:
"Quanti sì
tegnon or là su
gran regi
Che qui staranno
come porci in
braco
Di sé lasciando
orribili
dispregi"
Già. Quanti si
credono al di
sopra di tutti
non sono altro
che porci nella
melma che
lasciano dietro
di loro solo il
ricordo di
azioni degne di
disprezzo.
Ma sì, andiamo.
Basta navigare.
Arrivare alle
mura di Dite non
mi interessa né,
tantomeno,
giungere al
Cocito per
risalire. E
l'unico
desiderio che al
momento avverto
imperioso è
quello di
passare dal
pertugio tondo e
uscire a riveder
le stelle. Ci
siamo affannati
(leggi
divertiti, nel
più nobile dei
significati) a
criticare in via
costruttiva, a
segnalare, a
proporre in
alternativa ma,
va detto, oltre
che a motivare
entusiasti
collaboratori ed
a sommare
affezionati
lettori,
l'impegno di
scrivere e
leggere oltre
non va.
Sto pensando di
smettere di
partecipare al
gioco della
rivista? Ma
neanche per
sogno. Del
resto, dove
trovare un'altra
ricreazione
simile? In
nessun dove.
Infatti, oggi,
la tarda
modernità del XX
secolo ha
assunto ogni
espressione
ludica e l'ha
riformulata
secondo criteri
organizzativi,
razionalistici,
efficientisti,
economici,
rivestendo il
tutto con
"l'etica della
produzione e del
consumo". Così,
la dimensione
festosa e
gratuita del
gioco ha perso
la sua funzione
di attività
facilitatrice di
sviluppo per
diventare, bene
che vada, agente
ipertrofico e
settorializzante.
Quindi, no: non
intendo lasciare
un così
incentivante,
stimolante gioco
che ha il nome
di Confini e
finché avrà vita
io ne sarò, col
beneplacito
dell'editore,
leale,
affezionata,
collaboratrice.
Del resto, io
che non ho mai
amato Nietzsche,
a differenza di
tante amiche e
amici della
vecchia destra,
mi ritrovo nel
tramonto della
mia vita a
condivi-derne le
riflessioni.
Intanto, ho
scoperto che
l'insofferenza
verso il
filosofo non era
data da altro se
non dal mio
pensare e agire,
perfettamente
sovrap-ponibili
alle teorie
nicciane. Un po'
come la
convivenza tra
due soggetti
dallo stesso
carattere che
finiscono per
odiarsi. Una
situazione,
peraltro,
aggravata da un
contesto
operativo fatto
di "certezze",
parole d'ordine,
idee-forza,
paradossali in
uno scenario
dove secondo il
filosofo
necessita il
Caos. E,
peraltro,
anch'io, da
giovane,
nonostante la
mia prodigiosa
(eh! eh!)
memoria, sono
assurdamente
caduta in quel
contesto che
proprio
Nietzsche, tanto
amato dal mondo
della "liberale"
destra, nella
sua opera
"Umano, troppo
umano" dedicata
a Voltaire così
descrive:
"il vantaggio
della cattiva
memoria è che si
godono parecchie
volte le stesse
cose per la
prima volta.3".
Ma, come detto,
ero giovane e
credevo; e
l'artificiosa
convinzione
faceva premio
sull'interiore
pulsione di
abbattere idoli
e tabù. Eh! ma
ora sono anziana
e, libera da
convenzioni, mi
accorgo che Dio
è veramente
morto perché non
esiste alcuna
certezza, alcuna
filosofia
sistematica,
razionale e
certa, alcuna
dottrina
religiosa e
pensiero, utili
per vivere dal
momento che
siamo stati
privati di ogni
speranza
idealistica e di
ogni spinta
emotiva, sia pur
utopistica.
Quindi, siamo al
Caos ma è
proprio da
questa
condizione (ho
scoperto in
ritardo) che
occorre partire
perché essa è
una condizione
dell'anima, una
versione del
nostro mondo
interiore, è
arte, passione,
sofferenza,
follia, un moto
continuo e
affascinante che
determina il
ritmo con il
quale scegliamo
di essere
presenti a noi
stessi.
In sostanza, il
caos è l'unica,
esatta essenza
in grado di
partorire le
stelle danzanti.
Il bambino che
gioca è una
stella danzante
perché,
inconsapevole
della sua
grandezza
interiore, unica
e irripetibile
(come una
stella) è colui
che insegue la
(sua) verità, è
il filosofo, è
il viandante, il
coraggioso, è
colui che va
oltre le
convenzioni, le
tradizioni, la
morale i dogmi
precostituiti, i
pregiudizi. Carl
Gustav Jung
sintetizza
meravigliosamente
bene una simile
condizione: "Accettai
il caos, e la
notte seguente
l'anima mia mi
visitò.4"
Già, perché
l'anima, intesa
come coscienza,
la possiamo
paragonare agli
storni che
volano
disegnando
forme,
restringendosi e
dilatandosi,
assumendo strane
figure, o ad un
branco di pesci
che formano
un'unica palla
che però si
srotola, si
accartoccia e si
allunga secondo
le esigenze del
momento.
Analogamente i
nostri neuroni
sembrano danzare
in bizzarre e
mutevoli
immagini: una
danza ritmica,
sincrona ma
variabile, di
scariche e
oscillazioni.
Così, i
micro-eventi
danzanti creano
un fenomeno
unificato: la
nostra
coscienza,
appunto. Ed è,
quindi, secondo
la mia caotica,
danzante
coscienza che
qui affermo che
non si può
continuare a
portare, sia pur
involontariamente,
acqua ad una
sedicente destra
o ad aspettare
che un ciuco
diventi un bel
giovane e ciò in
quanto l'unico
che è riuscito
nel prodigio,
comunque grazie
alla deità, è un
tal Apuleio5.
A mo' di
metafora, ben
inteso (la
realtà è
onestamente
diversa).
Peraltro, non
c'è neppure
speranza che la
metafora
solleciti una
nuova realtà
perché i ciuchi
non sanno cosa
significhi un
percorso
gnostico e, in
ogni caso, oggi
si sentono essi
stessi dei.
Questa non vuole
minimamente
essere una
sollecitazione
verso la
direzione anche
perché la
rivista è libera
(lo è sempre
stata) da
condizionamenti
e lo era anche
quando la sua
intestazione
poteva lasciare
spazio ad un
duplice
significato. Ciò
che invece
voglio
significare è
l'auspicio che
la rivista
diventi
un'agorà, un
luogo d'incontro
dove soggetti
dalle più
differenti
esperienze e
culture possano
confrontarsi e
dibattere sugli
argomenti più
disparati.
È stata la
marchesa di
Rambouillet che,
intorno al 1620,
ha aperto per
prima le porte
della sua casa
parigina a un
gruppo di ospiti
scelti per il
puro piacere di
ritrovarsi
insieme,
fissando così la
forma
archetipica del
salotto e
dettando le
regole che
avrebbero
imposto la
socievolezza
aristocratica
francese all'
ammirazione
dell'Europa
intera. Erano
regole di
eleganza e di
cortesia che
dovevano
stemperare la
violenza di una
casta e
contrapporre
alla logica
della forza e
alla brutalità
degli istinti
un'arte di stare
insieme basata
sulla seduzione
e il piacere
reciproco.
Ma il gesto
inaugurale della
marchesa aveva
anche un
significato
politico e si
faceva
interprete di un
sentimento
diffuso.
Richiamata
all'ordine da
Richelieu,
privata
progressivamente
della sua
autonomia e del
suo potere dal
rafforzamento
dell'autorità
monarchica, la
nobiltà francese
prendeva così le
distanze della
corte, si dotava
di uno spazio
proprio, a metà
strada tra la
sfera pubblica e
quella privata,
dove essere
felicemente sé
stessa e
perseguire uno
stile di vita
unico ed
inimitabile.
Rito centrale
della nuova
socievolezza era
la
conversazione.
Analogamente,
può essere per
Confini dove dal
confronto e
dall'affinamento
delle idee è
lecito pensare
che si possa
esportare un
nuovo modo di
intendere e di
agire.
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Note:
1. Vv 31-33
2. Letteratura
Italiana Einaudi
– Edizione di
riferimento I
Meridiani, I
Edizione,
Mondadori,
Milano 1991
3. Friedrich
Nietzsche –
Umano, troppo
umano – Ed.
Adelphi – Volume
primo – pos. 580
4. Carl Gustav
Jung – Il libro
rosso- Liber
Novus – Ed.
Bollati
Boringhieri 2014
– pag. 297
5. Apuleio – Le
metamorfosi |
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C'E' UN DOMANI
PER CONFINI |
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Intervengo sulla
sollecitazione
del "Che fare?",
proposta
dall'amico /
direttore /
editore Angelo
Romano circa il
destino di
"Confini"
all'alba del suo
51° numero.
Cosa augurare a
un padre per la
sua creatura se
non "lunga
vita!"? Non è un
formalistico
auspicio ma un
sincero
pronostico per
un prezioso
strumento di
riflessione.
Già! Perché il
compito
principale a cui
cerca di
assolvere
"Confini",
informando, è
quello di
spingere il
lettore a
riflettere, che
non è
propriamente
l'attività della
nostra mente più
frequentata di
questi periodi.
Non per fare i
difficili ma nel
tempo storico
del Pensiero
inscatolato nei
140 caratteri di
un tweet, la
soglia
d'attenzione
dell'uomo comune
s'è abbassata
vertiginosamente.
Per taluni è un
bene perché una
società veloce -
Zygmunt Bauman
la chiamerebbe
"liquida"- ha
bisogno di
pensieri "fast".
E la riflessione
per sua natura
non è fast: è
slow. Che, per
gli odierni
padroni del
vapore della
società globale,
è sinonimo di
vecchio,
antiquato,
superato,
rottamabile.
Tutto bene,
allora, se non
fosse per il
fatto che questa
vita accelerata,
vuoi perché
finisce per
essere
superficiale,
vuoi perché
quando passa
lascia le cose
peggiori di
com'erano, non
sta dando gran
prova di sé.
Sarà per questo
che si rafforza
il nocciolo duro
di quelli che
decidono di non
starci e
preferiscono
esercitare il
loro
personalissimo
diritto alla
ribellione
compiendo gesti
eversivi. Niente
di cruento o di
penalmente
rilevante,
s'intende, ma
piccoli,
apparentemente
irrilevanti,
momenti
rivoluzionari
che presi
singolarmente
possono apparire
più innocui del
battito d'ali di
una farfalla, ma
se posti in
relazione di
continuità con
infiniti altri
singoli gesti
formano una
valanga, un
sisma, un
parossismo.
Leggere e
meditare su un
articolo
pubblicato da
"Confini"
rappresenta uno
di quegli atti
rivoluzionari
che la mente di
un individuo si
concede nei
momenti di
libera uscita
dal pascolo
recintato del
pensiero
conformista.
Questo è
"Confini": un
luogo corsaro
dove si tentano
liberi
ragionamenti.
Non importa se
siano tutti e
sempre di alta
qualità: ciò che
realmente conta
e fa aggio è
l'originalità,
se si vuole:
l'artigiana
manualità, della
costruzione
personale di
un'idea
strutturata. Non
è cosa da poco:
è
conservativamente
rivoluzionaria.
Il tempo storico
che stiamo
vivendo è
attraversato da
un'oscura
perversione: le
uniche élite
legittimate a
discutere della
visione del
mondo sono
quelle
matematiche,
ingegneristiche
e informatiche
nel presupposto
che siano le
uniche in grado
di innovare e di
facilitare la
vita delle masse
di consumatori.
Come se il
destino del
mondo dovesse
risolversi in un
algoritmo, come
se lo spirito
dell'uomo,
unitamente allo
Zeitgeist: lo
"Spirito del
Tempo", dovesse
essere
incapsulato in
un microchip e
il diritto
all'utopia fosse
diventato un
appannaggio
degli oligarchi
della Silicon
Valley.
Non vi è dubbio
che il
linguaggio della
Rete, con la
globalizzazione,
sia divenuto il
canale
privilegiato di
comunicazione
universale, ma
non montiamoci
la testa: non
siamo al
cospetto di Dio.
Da sempre gli
individui
superiori hanno
superato le
barriere di
spazio e di
tempo
comunicando tra
loro mediante il
linguaggio
universale dei
simboli. E hanno
fatto di più:
hanno costruito
ponti di
comunicazione
utilizzando le
più alte
espressioni
dello Spirito
non
necessariamente
tributarie dei
processi
razionali.
Ciò che
certamente non
hanno fatto è
stato di
confondere il
mezzo con il
fine, come
sembra accadere
oggi, e per
questo non si
sono perduti.
L'essere fedeli
ai paradigmi di
una struttura
solida della
società,
ancorata a
valori etici
perenni non
negoziabili,
ispirata da una
dimensione
metafisica degli
archetipi
costitutivi
della natura
umana dei
superiori,
configura non la
rappresentazione
di un vuoto
passatismo ma la
carica
dirompente di
una sano
pensiero
reazionario.
Ora, chiedetevi
in quanti altri
posti e luoghi
della comunità
virtuale, comode
sentine del
mondo degli
spiriti minori,
è possibile
leggere
impunemente
parole come
"reazionario",
"conservatore",
"Tradizione"?
Su "Confini" è
accaduto e
accade non per
svista del
correttore di
bozze ma per
chiara scelta
editoriale. Non
basta ciò per
riconoscere
nell'attitudine
a rompere ogni
schema
conformista il
potenziale
rivoluzionario
di uno spazio
controcorrente?
Libertà: questa
è la chiave di
tutto. Libertà
di scrittura,
libertà di
pensiero,
libertà di
visione. Nessun
intruppamento
obbligatorio per
essere vetrina
di una parte a
dispetto
dell'altra. Si
dirà: ma resta
comunque un
foglio della
Destra. E con
questo? Non è
certo un crimine
che compagni di
strada di molte
stagioni, che
hanno guardato
il mondo dal
medesimo angolo
visuale, si
siano ritrovati
a discutere e a
pensare insieme.
C'è stato un
tempo in cui la
chiamata alla
difesa di valori
comuni poteva
dare senso a un
intero percorso
esistenziale e
quel tempo
alcuni di noi
l'hanno vissuto.
Con dignità e
coraggio. E per
certi aspetti
continuano a
vivere quella
stagione come se
la trincea dalla
quale è passata
la prima linea
di difesa
dell'antico
ordine non fosse
mai stata chiusa
e occorresse
ancora montare
la guardia per
il bene di ciò
che resta.
Tuttavia, il
richiamo
identitario non
ha mai temuto la
verifica del
confronto con
l'altrui visione
del mondo. Al
contrario, se
un'infantile
tentazione è
rimasta viva
nella coscienza
del pensiero
maturo della
destra politica,
non ibridata dal
versante
economicista-liberista
della sua
storia, è stata
quella voglia
ardimentosa di
saltare sempre e
comunque gli
steccati.
Tutto si può
rimproverare
all'essenza del
militante di
destra tranne
che la cieca
obbedienza
all'ortodossia.
Il tipo di
destra è per sua
natura eretico:
dategli un credo
e lui cercherà
infiniti modi
per declinarlo.
Talvolta anche
inconsapevolmente.
Questo passaggio
che evidenzia
un'apparente
devianza
intellettuale lo
spiega bene
Roberta Forte
nella sua
poetica
riflessione sul
futuro di
"Confini".
Roberta che
candidamente
confessa di non
aver mai amato
Nietzsche, alla
fine non resiste
alla gioia di
ricercare
nietzschianamente
nell'essenza
feconda del Caos
le "stelle
danzanti", gli
esseri completi
portatori di
verità che, come
Zarathrusta,
sanno
tramontare.
Perché mai si
dovrebbe temere
il confronto con
un pensiero
altro? Se c'è un
luogo di
autosufficienza
immunitaria
dalle paure di
colonizzazione
culturale questo
è "Confini". Lo
dicono i fatti.
Lo testimoniano
i profili
biografici di
alcuni tra i
suoi più fecondi
collaboratori.
La continua
emarginazione
subìta dal
pensiero di
destra per mano
della ferrea
egemonia
culturale del
pensiero
dominante non ha
impedito, in
passato, a menti
sveglie di
coltivare i
propri furori
creativi, con
baldanzosa gioia
e temeraria
convinzione di
marciare sul
versante giusto
della Storia.
Portare con
stupefacente
fierezza lo
stigma degli
uomini tra le
macerie,
sopravvissuti
indenni alla
transizione del
moderno, ha
rafforzato la
tempra degli
spiriti fedeli
all'antico
ordine. Alcuni
sono stati
hobbit nella
Terra di Mezzo
ben prima che
Tolkien
diventasse un
fumetto nelle
spire
manipolatrici
dell'industria
cinematografica.
Evoliani,
wagneriani,
schimttiani,
gentiliani,
corporativisti,
organicisti,
integralisti,
post-fascisti,
perfino
gramsciani di
destra: non ci
siamo fatti
mancare nulla.
Ma siamo
sopravvissuti. E
siamo ancora
presenti, qui e
ora, per stupire
e stupirci. |
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DA VECCHIO DICO
LA MIA |
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Rispondo
all'invito
dell'amico
Angelo circa un
eventuale,
possibile nuovo
indirizzo da
dare alla
rivista con
l'intento di
raggiungere
altri stimolanti
traguardi.
Certo, arrivare
al 50° numero,
come dice
Roberta Forte,
non è poco e non
è da tutti,
soprattutto se
consideriamo da
un lato le
modalità di
edizione e
dall'altro il
numero dei
nostri
(affezionati,
spero) lettori.
Comunque, non
accontentarsi,
pensare di
migliorarsi,
ricercare nuove
forme di
approccio e di
coinvolgimento,
è veramente da
pochi ed io mi
onoro di
appartenere a
questa esigua
minoranza.
Del resto,
questa è la
connotazione e
il modus
operandi di
tutte quelle
iniziative che
si assumono per
il puro piacere
di farlo, senza
finalità di
lucro e senza
ulteriori
interessi, da
liberi in un
Paese che lo è
sempre meno
perché vede
assottigliarsi
sempre più la
possibilità di
parlare e quella
di spendere.
Alla seconda
carenza non
saprei come
sopperire ma, di
solito, dove c'è
libertà di
espressione,
dove il diritto
di parola è
rispettato, dove
la minoranza non
è una reietta,
ci sono anche
migliori
strumenti di
ripartizione del
reddito, c'è più
uguaglianza, lo
Stato è meno
esoso, le
condizioni di
lavoro sono meno
opprimenti e la
prestazione è
meglio
remunerata.
Già, forse sarò
un sognatore ma
un mio vecchio
maestro, tanto
tempo, fa mi
diceva che per
procedere nella
vita bisogna
sognare. E,
soprattutto,
sognare in
grande. Non a
livello
utopistico,
beninteso. Non
era un anziano
rincoglionito e
l'intelletto gli
funzionava alla
grande.
Intendeva
semplicemente
dire che
bisognava
prefiggersi
grandi,
articolati
obiettivi e,
poi, cominciare
a lavorare
alacremente per
conseguirli.
Sicuramente, è
impensabile
raggiungerli
nella totale
loro interezza,
- diceva - ma
più grandi e
articolati sono
i sogni e
maggiore sarà la
parte
realizzata.
Ora, lungi da me
impartire banali
lezioni di vita
o buttarla in
spicciola
filosofia ma in
questo mondo
sempre più
condizionato
cosa resta,
soprattutto
all'anziano, se
non i sogni? E
cosa impedisce,
soprattutto
all'anziano,
oppresso dalle
contingenze ma
libero da
convenzioni, di
contribuire a
ché emerga un
diverso punto di
vista dal
logorroico
piattume?
Soltanto la
voglia di farlo,
soltanto la
voglia di
tornare a far
lavorare la
mente.
Per tutta una
serie di strane
contingenze
coincidenti,
tanti anni
addietro mi
trovai ad
avvicinare la
figura di Walter
Gropius e la sua
realizzazione a
Weimar nel 1919:
la celebre
Bauhaus. Pensate
per un attimo a
come poteva
essere la vita
nella Germania
di Weimar in
quel periodo:
schiacciata
dalle condizioni
capestro della
pace di
Versailles
imposte dal
presidente
americano
Woodrow Wilson,
alle quali
Francia e
Inghilterra
furono costrette
ad adeguarsi, la
popolazione
tedesca era
sballottata tra
un'inflazione (a
volte
giornaliera) a 3
cifre,
un'economia al
collasso, una
disoccupazione
paurosa e la
politica che non
riusciva a
trovare una via
d'uscita,
dilaniata tra
destra e
sinistra.
La Bauhaus,
scuola di
architettura,
arte e design, e
non solo, grazie
anche ai suoi
insegnanti di
diverse
nazionalità,
divenne in breve
tempo, elemento
di primo piano
della cultura
europea e
l'esperienza
didattica della
scuola influirà
profondamente
sull'insegnamento
artistico e
tecnico fino ad
oggi. Gropius,
al riguardo era
solito dire:
"Desidero che un
giovane
architetto sia
capace di
trovare in
qualsiasi
circostanza la
sua strada;
desidero che,
traendolo dalle
condizioni
tecniche
economiche e
sociali nelle
quali si trova a
operare, egli
crei, in piena
indipendenza,
forme
autentiche,
genuine, anziché
imporre formule
scolastiche a
dati ambientali
che possono
esigere
soluzioni del
tutto diverse.".
E, ancora. "Se
dovessimo
rifiutare del
tutto il mondo
che ci circonda,
allora la sola
soluzione
resterebbe
l'isola
romantica. [...]
un mal compreso
ritorno alla
natura
rousseauiano. Ma
se invece
vogliamo
rimanere in
questo mondo,
allora le forme
delle nostre
creazioni
assumeranno
(devono
assumere) ancor
di più il suo
(loro) ritmo.".
Nel senso che
oggi la
politica,
soprattutto
nazionale,
divisa tra il
qualunquismo di
centro-destra,
il retorico
intellettualismo
etico del
centro-sinistra
e il nulla, si
avvale in
maniera sempre
più ricorrente
di formule
dichiarate
salvifiche di
situazioni che
in altri Paesi
hanno creato
dissesti sociali
ed enormi
sperequazioni.
Non sarà opera
da poco e non
sarà immediato
l'esito, ma un
nostro impegno
potrebbe essere
la voce fuori
dal coro della
retorica
qualunquista e
demagoga.
Potrebbe essere
un veicolo
d'idee, una
(modesta??)
cassa di
risonanza, un
casareccio
amplificatore.
Per cui, se da
un lato concordo
con Roberta
circa la
"trasformazione"
in agorà della
rivista,
dall'altro mi
sento di
aggiungere una
nota.
Dinnanzi a temi
importanti,
coinvolgenti la
collettività,
dopo averle
dibattute,
perché non
pensare di
formulare
istanze, aperte
al generale
contributo e
alla comune
sottoscrizione,
da indirizzare
agli architetti
designati
proprio per la
ricerca di
quella
autenticità,
originalità e
genuinità? Non
mi rivolgo,
ovviamente
soltanto ai
vecchi ma anche
a coloro che,
seppur giovani,
rifiutano
l'omologazione
culturale e
hanno voglia di
pensare e di
parlare.
Quello che posso
dire in aggiunta
è che non so se
verremmo
ascoltati ma, in
ogni caso, sarà
un modo per
battere un
colpo.
Il che non è
certo poco. |
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