DOSSIER: DIBATTITO SU CONFINI  
    di Roberta Forte    
       
    AD APOLLO PREFERISCO DIONISO    
   
Non c'è che dire. La rivista nella sua edizione è arrivata al 50° numero. Non è poco e non è da tutti editare unicamente sul web un periodico cultural-politico per oltre quattro anni e con un numero rilevante di pagine trovando, peraltro, non solo perduranti, validi, collaboratori (immodestamente, mi annovero tra questi) ma riuscendo anche ad ospitare illustri personaggi che non hanno disdegnato il sapore semplice e genuino del foglio nel rappresentare il loro pensiero.
No. Non è poco e non è da tutti. E di questo dobbiamo congratularci con noi stessi per essere riusciti (quasi sempre) sia ad essere sulla palla, come si suol dire, nonostante la periodicità mensile, sia ad affrontare temi di prospettiva per fornire (almeno a noi stessi) un'alternativa al piattume intellettuale che ci circonda.
Al tempo stesso, non è poco e non è da tutti acquisire e man-tenere oltre dodicimila destinatari che ricevono (e, in caso di ritardo, sollecitano) la rivista; e di ciò va dato unicamente merito al suo ideatore, al suo direttore, al suo capo-redattore, funzioni tutte rivestite dall'amico Angelo, che attraverso il suo acume editoriale, la sapiente delineazione dei temi proposti, i suoi scritti nonché la sua capacità di tessere e mantenere rapporti, è riuscito a dare valida ed efficace forma e sostanza ad un prodotto, tutto sommato, virtuale.
Ma, dopo tanto impegno profuso nel lustro appena trascorso, occorre, a mio sommesso avviso, avviare una riflessione.
Nell'VIII canto dell'Inferno1, Dante e Virgilio salgono sull'imbarcazione di Flegiàs per essere condotti, attraverso la palude dello Stige, verso le mura della città di Dite. Siamo nel girone degli iracondi e degli eresiarchi. Mentre stanno attraversando la palude, Dante viene apostrofato da un'anima che si aggrappa al bordo della barca e chiede l'identità del poeta avendo intuito la natura tutta eccezionale del trasporto: la barca affonda nell'acqua più del solito e l'anima ha capito che contiene un vivo (che giunge nell'inferno prima del tempo).
“Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: "Chi se' tu che vieni anzi ora?"

Una gora, cioè una parte d'acqua tratta a forza dal corso di un fiume, morta, cioè "cioè non moventisi con alcun corso", specificò Boccaccio nel suo Commento alla Divina Commedia: un po' come la politica italiana. Nel senso che, da oltre venticinque anni, la politikḗ ha perso il suo significato originario insieme alla sottintesa téchnē, l'arte e la tecnica; tratta a forza da grandi bacini e tramutata in piccoli e raminghi rivi, dopo un percorso più o meno lungo, scompare. Un po' come quei fiumi i quali anziché sfociare in mare, svaniscono nel deserto lasciando, tutt'al più, delle pozze stagnanti.
Agli inizi, per un po', abbiamo provato (artigianalmente) a vedere se quei fiumi avessero assunto caratteristiche carsiche; la speranza era di riuscire a ritrovare la vena e seguirla fino all'approdo in superfice, sia pur a lunghissime distanze. Però, abbiamo dovuto costatare che quei fiumi erano definitivamente scomparsi, tranne le pozzanghere acquitrinose di superficie.
E in quelle pozze abbiamo anche provato a navigarci ma, al pari di Dante (Dio perdoni l'accostamento), la nostra "barca" è stata approcciata da spiriti infernali imbrattati di fango, come li definisce Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento alla Commedia2, che nel pur loro stringato interloquire, hanno racchiuso e racchiudono una laconica aggressività. "Chi se' tu che vieni anzi ora?" Ma, all'approccio, a differenza di Dante, non abbiamo risposto con analoga aggressività bensì con vana, inutile, disponibilità.
E, alla fine, come il Sommo, abbiamo dovuto lasciare le anime morte (è bandito ogni sapore tautologico) ad azzuffarsi tra loro; un contesto iracondo, quello della Commedia, dove primeggia Filippo Argenti che addirittura arriva a sbranarsi da solo:
"Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furiosa."

Orgogliosa sta per boriosa. Eh sì! A distanza di settecento anni, si può ancora notare la efficace lucidità del grande Poeta che riprende a navigare commentando quanto ha appena lasciato:
"Quanti sì tegnon or là su gran regi
Che qui staranno come porci in braco
Di sé lasciando orribili dispregi"

Già. Quanti si credono al di sopra di tutti non sono altro che porci nella melma che lasciano dietro di loro solo il ricordo di azioni degne di disprezzo.
Ma sì, andiamo. Basta navigare. Arrivare alle mura di Dite non mi interessa né, tantomeno, giungere al Cocito per risalire. E l'unico desiderio che al momento avverto imperioso è quello di passare dal pertugio tondo e uscire a riveder le stelle. Ci siamo affannati (leggi divertiti, nel più nobile dei significati) a criticare in via costruttiva, a segnalare, a proporre in alternativa ma, va detto, oltre che a motivare entusiasti collaboratori ed a sommare affezionati lettori, l'impegno di scrivere e leggere oltre non va.
Sto pensando di smettere di partecipare al gioco della rivista? Ma neanche per sogno. Del resto, dove trovare un'altra ricreazione simile? In nessun dove. Infatti, oggi, la tarda modernità del XX secolo ha assunto ogni espressione ludica e l'ha riformulata secondo criteri organizzativi, razionalistici, efficientisti, economici, rivestendo il tutto con "l'etica della produzione e del consumo". Così, la dimensione festosa e gratuita del gioco ha perso la sua funzione di attività facilitatrice di sviluppo per diventare, bene che vada, agente ipertrofico e settorializzante.
Quindi, no: non intendo lasciare un così incentivante, stimolante gioco che ha il nome di Confini e finché avrà vita io ne sarò, col beneplacito dell'editore, leale, affezionata, collaboratrice. Del resto, io che non ho mai amato Nietzsche, a differenza di tante amiche e amici della vecchia destra, mi ritrovo nel tramonto della mia vita a condivi-derne le riflessioni.
Intanto, ho scoperto che l'insofferenza verso il filosofo non era data da altro se non dal mio pensare e agire, perfettamente sovrap-ponibili alle teorie nicciane. Un po' come la convivenza tra due soggetti dallo stesso carattere che finiscono per odiarsi. Una situazione, peraltro, aggravata da un contesto operativo fatto di "certezze", parole d'ordine, idee-forza, paradossali in uno scenario dove secondo il filosofo necessita il Caos. E, peraltro, anch'io, da giovane, nonostante la mia prodigiosa (eh! eh!) memoria, sono assurdamente caduta in quel contesto che proprio Nietzsche, tanto amato dal mondo della "liberale" destra, nella sua opera "Umano, troppo umano" dedicata a Voltaire così descrive: "il vantaggio della cattiva memoria è che si godono parecchie volte le stesse cose per la prima volta.3".
Ma, come detto, ero giovane e credevo; e l'artificiosa convinzione faceva premio sull'interiore pulsione di abbattere idoli e tabù. Eh! ma ora sono anziana e, libera da convenzioni, mi accorgo che Dio è veramente morto perché non esiste alcuna certezza, alcuna filosofia sistematica, razionale e certa, alcuna dottrina religiosa e pensiero, utili per vivere dal momento che siamo stati privati di ogni speranza idealistica e di ogni spinta emotiva, sia pur utopistica.
Quindi, siamo al Caos ma è proprio da questa condizione (ho scoperto in ritardo) che occorre partire perché essa è una condizione dell'anima, una versione del nostro mondo interiore, è arte, passione, sofferenza, follia, un moto continuo e affascinante che determina il ritmo con il quale scegliamo di essere presenti a noi stessi.
In sostanza, il caos è l'unica, esatta essenza in grado di partorire le stelle danzanti. Il bambino che gioca è una stella danzante perché, inconsapevole della sua grandezza interiore, unica e irripetibile (come una stella) è colui che insegue la (sua) verità, è il filosofo, è il viandante, il coraggioso, è colui che va oltre le convenzioni, le tradizioni, la morale i dogmi precostituiti, i pregiudizi. Carl Gustav Jung sintetizza meravigliosamente bene una simile condizione: "Accettai il caos, e la notte seguente l'anima mia mi visitò.4"
Già, perché l'anima, intesa come coscienza, la possiamo paragonare agli storni che volano disegnando forme, restringendosi e dilatandosi, assumendo strane figure, o ad un branco di pesci che formano un'unica palla che però si srotola, si accartoccia e si allunga secondo le esigenze del momento. Analogamente i nostri neuroni sembrano danzare in bizzarre e mutevoli immagini: una danza ritmica, sincrona ma variabile, di scariche e oscillazioni. Così, i micro-eventi danzanti creano un fenomeno unificato: la nostra coscienza, appunto. Ed è, quindi, secondo la mia caotica, danzante coscienza che qui affermo che non si può continuare a portare, sia pur involontariamente, acqua ad una sedicente destra o ad aspettare che un ciuco diventi un bel giovane e ciò in quanto l'unico che è riuscito nel prodigio, comunque grazie alla deità, è un tal Apuleio5. A mo' di metafora, ben inteso (la realtà è onestamente diversa). Peraltro, non c'è neppure speranza che la metafora solleciti una nuova realtà perché i ciuchi non sanno cosa significhi un percorso gnostico e, in ogni caso, oggi si sentono essi stessi dei.
Questa non vuole minimamente essere una sollecitazione verso la direzione anche perché la rivista è libera (lo è sempre stata) da condizionamenti e lo era anche quando la sua intestazione poteva lasciare spazio ad un duplice significato. Ciò che invece voglio significare è l'auspicio che la rivista diventi un'agorà, un luogo d'incontro dove soggetti dalle più differenti esperienze e culture possano confrontarsi e dibattere sugli argomenti più disparati.
È stata la marchesa di Rambouillet che, intorno al 1620, ha aperto per prima le porte della sua casa parigina a un gruppo di ospiti scelti per il puro piacere di ritrovarsi insieme, fissando così la forma archetipica del salotto e dettando le regole che avrebbero imposto la socievolezza aristocratica francese all' ammirazione dell'Europa intera. Erano regole di eleganza e di cortesia che dovevano stemperare la violenza di una casta e contrapporre alla logica della forza e alla brutalità degli istinti un'arte di stare insieme basata sulla seduzione e il piacere reciproco.
Ma il gesto inaugurale della marchesa aveva anche un significato politico e si faceva interprete di un sentimento diffuso. Richiamata all'ordine da Richelieu, privata progressivamente della sua autonomia e del suo potere dal rafforzamento dell'autorità monarchica, la nobiltà francese prendeva così le distanze della corte, si dotava di uno spazio proprio, a metà strada tra la sfera pubblica e quella privata, dove essere felicemente sé stessa e perseguire uno stile di vita unico ed inimitabile. Rito centrale della nuova socievolezza era la conversazione.
Analogamente, può essere per Confini dove dal confronto e dall'affinamento delle idee è lecito pensare che si possa esportare un nuovo modo di intendere e di agire.

Note:
1. Vv 31-33
2. Letteratura Italiana Einaudi – Edizione di riferimento I Meridiani, I Edizione, Mondadori, Milano 1991
3. Friedrich Nietzsche – Umano, troppo umano – Ed. Adelphi – Volume primo – pos. 580
4. Carl Gustav Jung – Il libro rosso- Liber Novus – Ed. Bollati Boringhieri 2014 – pag. 297
5. Apuleio – Le metamorfosi
   
     
         
         
    di Cristofaro Sola    
         
    C'E' UN DOMANI PER CONFINI     
    Intervengo sulla sollecitazione del "Che fare?", proposta dall'amico / direttore / editore Angelo Romano circa il destino di "Confini" all'alba del suo 51° numero.
Cosa augurare a un padre per la sua creatura se non "lunga vita!"? Non è un formalistico auspicio ma un sincero pronostico per un prezioso strumento di riflessione. Già! Perché il compito principale a cui cerca di assolvere "Confini", informando, è quello di spingere il lettore a riflettere, che non è propriamente l'attività della nostra mente più frequentata di questi periodi. Non per fare i difficili ma nel tempo storico del Pensiero inscatolato nei 140 caratteri di un tweet, la soglia d'attenzione dell'uomo comune s'è abbassata vertiginosamente. Per taluni è un bene perché una società veloce - Zygmunt Bauman la chiamerebbe "liquida"- ha bisogno di pensieri "fast". E la riflessione per sua natura non è fast: è slow. Che, per gli odierni padroni del vapore della società globale, è sinonimo di vecchio, antiquato, superato, rottamabile.
Tutto bene, allora, se non fosse per il fatto che questa vita accelerata, vuoi perché finisce per essere superficiale, vuoi perché quando passa lascia le cose peggiori di com'erano, non sta dando gran prova di sé. Sarà per questo che si rafforza il nocciolo duro di quelli che decidono di non starci e preferiscono esercitare il loro personalissimo diritto alla ribellione compiendo gesti eversivi. Niente di cruento o di penalmente rilevante, s'intende, ma piccoli, apparentemente irrilevanti, momenti rivoluzionari che presi singolarmente possono apparire più innocui del battito d'ali di una farfalla, ma se posti in relazione di continuità con infiniti altri singoli gesti formano una valanga, un sisma, un parossismo.
Leggere e meditare su un articolo pubblicato da "Confini" rappresenta uno di quegli atti rivoluzionari che la mente di un individuo si concede nei momenti di libera uscita dal pascolo recintato del pensiero conformista.
Questo è "Confini": un luogo corsaro dove si tentano liberi ragionamenti. Non importa se siano tutti e sempre di alta qualità: ciò che realmente conta e fa aggio è l'originalità, se si vuole: l'artigiana manualità, della costruzione personale di un'idea strutturata. Non è cosa da poco: è conservativamente rivoluzionaria.
Il tempo storico che stiamo vivendo è attraversato da un'oscura perversione: le uniche élite legittimate a discutere della visione del mondo sono quelle matematiche, ingegneristiche e informatiche nel presupposto che siano le uniche in grado di innovare e di facilitare la vita delle masse di consumatori.
Come se il destino del mondo dovesse risolversi in un algoritmo, come se lo spirito dell'uomo, unitamente allo Zeitgeist: lo "Spirito del Tempo", dovesse essere incapsulato in un microchip e il diritto all'utopia fosse diventato un appannaggio degli oligarchi della Silicon Valley.
Non vi è dubbio che il linguaggio della Rete, con la globalizzazione, sia divenuto il canale privilegiato di comunicazione universale, ma non montiamoci la testa: non siamo al cospetto di Dio. Da sempre gli individui superiori hanno superato le barriere di spazio e di tempo comunicando tra loro mediante il linguaggio universale dei simboli. E hanno fatto di più: hanno costruito ponti di comunicazione utilizzando le più alte espressioni dello Spirito non necessariamente tributarie dei processi razionali.
Ciò che certamente non hanno fatto è stato di confondere il mezzo con il fine, come sembra accadere oggi, e per questo non si sono perduti.
L'essere fedeli ai paradigmi di una struttura solida della società, ancorata a valori etici perenni non negoziabili, ispirata da una dimensione metafisica degli archetipi costitutivi della natura umana dei superiori, configura non la rappresentazione di un vuoto passatismo ma la carica dirompente di una sano pensiero reazionario.
Ora, chiedetevi in quanti altri posti e luoghi della comunità virtuale, comode sentine del mondo degli spiriti minori, è possibile leggere impunemente parole come "reazionario", "conservatore", "Tradizione"?
Su "Confini" è accaduto e accade non per svista del correttore di bozze ma per chiara scelta editoriale. Non basta ciò per riconoscere nell'attitudine a rompere ogni schema conformista il potenziale rivoluzionario di uno spazio controcorrente?
Libertà: questa è la chiave di tutto. Libertà di scrittura, libertà di pensiero, libertà di visione. Nessun intruppamento obbligatorio per essere vetrina di una parte a dispetto dell'altra. Si dirà: ma resta comunque un foglio della Destra. E con questo? Non è certo un crimine che compagni di strada di molte stagioni, che hanno guardato il mondo dal medesimo angolo visuale, si siano ritrovati a discutere e a pensare insieme.
C'è stato un tempo in cui la chiamata alla difesa di valori comuni poteva dare senso a un intero percorso esistenziale e quel tempo alcuni di noi l'hanno vissuto. Con dignità e coraggio. E per certi aspetti continuano a vivere quella stagione come se la trincea dalla quale è passata la prima linea di difesa dell'antico ordine non fosse mai stata chiusa e occorresse ancora montare la guardia per il bene di ciò che resta.
Tuttavia, il richiamo identitario non ha mai temuto la verifica del confronto con l'altrui visione del mondo. Al contrario, se un'infantile tentazione è rimasta viva nella coscienza del pensiero maturo della destra politica, non ibridata dal versante economicista-liberista della sua storia, è stata quella voglia ardimentosa di saltare sempre e comunque gli steccati.
Tutto si può rimproverare all'essenza del militante di destra tranne che la cieca obbedienza all'ortodossia. Il tipo di destra è per sua natura eretico: dategli un credo e lui cercherà infiniti modi per declinarlo. Talvolta anche inconsapevolmente.
Questo passaggio che evidenzia un'apparente devianza intellettuale lo spiega bene Roberta Forte nella sua poetica riflessione sul futuro di "Confini". Roberta che candidamente confessa di non aver mai amato Nietzsche, alla fine non resiste alla gioia di ricercare nietzschianamente nell'essenza feconda del Caos le "stelle danzanti", gli esseri completi portatori di verità che, come Zarathrusta, sanno tramontare.
Perché mai si dovrebbe temere il confronto con un pensiero altro? Se c'è un luogo di autosufficienza immunitaria dalle paure di colonizzazione culturale questo è "Confini". Lo dicono i fatti. Lo testimoniano i profili biografici di alcuni tra i suoi più fecondi collaboratori.
La continua emarginazione subìta dal pensiero di destra per mano della ferrea egemonia culturale del pensiero dominante non ha impedito, in passato, a menti sveglie di coltivare i propri furori creativi, con baldanzosa gioia e temeraria convinzione di marciare sul versante giusto della Storia. Portare con stupefacente fierezza lo stigma degli uomini tra le macerie, sopravvissuti indenni alla transizione del moderno, ha rafforzato la tempra degli spiriti fedeli all'antico ordine. Alcuni sono stati hobbit nella Terra di Mezzo ben prima che Tolkien diventasse un fumetto nelle spire manipolatrici dell'industria cinematografica.
Evoliani, wagneriani, schimttiani, gentiliani, corporativisti, organicisti, integralisti, post-fascisti, perfino gramsciani di destra: non ci siamo fatti mancare nulla. Ma siamo sopravvissuti. E siamo ancora presenti, qui e ora, per stupire e stupirci.
 
   
       
         
         
         
    di Massimo Sergenti     
         
    DA VECCHIO DICO LA MIA    
    Rispondo all'invito dell'amico Angelo circa un eventuale, possibile nuovo indirizzo da dare alla rivista con l'intento di raggiungere altri stimolanti traguardi. Certo, arrivare al 50° numero, come dice Roberta Forte, non è poco e non è da tutti, soprattutto se consideriamo da un lato le modalità di edizione e dall'altro il numero dei nostri (affezionati, spero) lettori. Comunque, non accontentarsi, pensare di migliorarsi, ricercare nuove forme di approccio e di coinvolgimento, è veramente da pochi ed io mi onoro di appartenere a questa esigua minoranza.
Del resto, questa è la connotazione e il modus operandi di tutte quelle iniziative che si assumono per il puro piacere di farlo, senza finalità di lucro e senza ulteriori interessi, da liberi in un Paese che lo è sempre meno perché vede assottigliarsi sempre più la possibilità di parlare e quella di spendere.
Alla seconda carenza non saprei come sopperire ma, di solito, dove c'è libertà di espressione, dove il diritto di parola è rispettato, dove la minoranza non è una reietta, ci sono anche migliori strumenti di ripartizione del reddito, c'è più uguaglianza, lo Stato è meno esoso, le condizioni di lavoro sono meno opprimenti e la prestazione è meglio remunerata.
Già, forse sarò un sognatore ma un mio vecchio maestro, tanto tempo, fa mi diceva che per procedere nella vita bisogna sognare. E, soprattutto, sognare in grande. Non a livello utopistico, beninteso. Non era un anziano rincoglionito e l'intelletto gli funzionava alla grande. Intendeva semplicemente dire che bisognava prefiggersi grandi, articolati obiettivi e, poi, cominciare a lavorare alacremente per conseguirli. Sicuramente, è impensabile raggiungerli nella totale loro interezza, - diceva - ma più grandi e articolati sono i sogni e maggiore sarà la parte realizzata.
Ora, lungi da me impartire banali lezioni di vita o buttarla in spicciola filosofia ma in questo mondo sempre più condizionato cosa resta, soprattutto all'anziano, se non i sogni? E cosa impedisce, soprattutto all'anziano, oppresso dalle contingenze ma libero da convenzioni, di contribuire a ché emerga un diverso punto di vista dal logorroico piattume? Soltanto la voglia di farlo, soltanto la voglia di tornare a far lavorare la mente.
Per tutta una serie di strane contingenze coincidenti, tanti anni addietro mi trovai ad avvicinare la figura di Walter Gropius e la sua realizzazione a Weimar nel 1919: la celebre Bauhaus. Pensate per un attimo a come poteva essere la vita nella Germania di Weimar in quel periodo: schiacciata dalle condizioni capestro della pace di Versailles imposte dal presidente americano Woodrow Wilson, alle quali Francia e Inghilterra furono costrette ad adeguarsi, la popolazione tedesca era sballottata tra un'inflazione (a volte giornaliera) a 3 cifre, un'economia al collasso, una disoccupazione paurosa e la politica che non riusciva a trovare una via d'uscita, dilaniata tra destra e sinistra.
La Bauhaus, scuola di architettura, arte e design, e non solo, grazie anche ai suoi insegnanti di diverse nazionalità, divenne in breve tempo, elemento di primo piano della cultura europea e l'esperienza didattica della scuola influirà profondamente sull'insegnamento artistico e tecnico fino ad oggi. Gropius, al riguardo era solito dire: "Desidero che un giovane architetto sia capace di trovare in qualsiasi circostanza la sua strada; desidero che, traendolo dalle condizioni tecniche economiche e sociali nelle quali si trova a operare, egli crei, in piena indipendenza, forme autentiche, genuine, anziché imporre formule scolastiche a dati ambientali che possono esigere soluzioni del tutto diverse.".
E, ancora. "Se dovessimo rifiutare del tutto il mondo che ci circonda, allora la sola soluzione resterebbe l'isola romantica. [...] un mal compreso ritorno alla natura rousseauiano. Ma se invece vogliamo rimanere in questo mondo, allora le forme delle nostre creazioni assumeranno (devono assumere) ancor di più il suo (loro) ritmo.".
Nel senso che oggi la politica, soprattutto nazionale, divisa tra il qualunquismo di centro-destra, il retorico intellettualismo etico del centro-sinistra e il nulla, si avvale in maniera sempre più ricorrente di formule dichiarate salvifiche di situazioni che in altri Paesi hanno creato dissesti sociali ed enormi sperequazioni.
Non sarà opera da poco e non sarà immediato l'esito, ma un nostro impegno potrebbe essere la voce fuori dal coro della retorica qualunquista e demagoga. Potrebbe essere un veicolo d'idee, una (modesta??) cassa di risonanza, un casareccio amplificatore.
Per cui, se da un lato concordo con Roberta circa la "trasformazione" in agorà della rivista, dall'altro mi sento di aggiungere una nota.
Dinnanzi a temi importanti, coinvolgenti la collettività, dopo averle dibattute, perché non pensare di formulare istanze, aperte al generale contributo e alla comune sottoscrizione, da indirizzare agli architetti designati proprio per la ricerca di quella autenticità, originalità e genuinità? Non mi rivolgo, ovviamente soltanto ai vecchi ma anche a coloro che, seppur giovani, rifiutano l'omologazione culturale e hanno voglia di pensare e di parlare.
Quello che posso dire in aggiunta è che non so se verremmo ascoltati ma, in ogni caso, sarà un modo per battere un colpo.
Il che non è certo poco. 
   
         
         
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