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Scientia
potentia est.
Nella nostra
condizione il
“sapere” è dato
dalla
consapevolezza
della reale
condizione in
cui è l’Italia
in questo
epocale
passaggio
storico, mentre
il “potere” è
rappresentato
dalla
conseguente
capacità di
venirne fuori.
Ma il Paese è
consapevole dei
rischi che sta
correndo? La mia
risposta è no,
non lo è. E a
ben vedere non
lo era neppure
prima del Covid,
se è vero – come
purtroppo è
drammaticamente
vero – che da
oltre un quarto
di secolo
scivola in un
declino, lento
ma inesorabile,
fattosi col
passare del
tempo vera e
propria
decadenza, senza
che questo abbia
generato
cognizione della
tendenza in atto
e soprattutto
delle sue cause.
Ha generato
rabbia, rancore,
astio,
scoramento, ma
non
consapevolezza.
Anche perché il
sentimento
collettivo
italico ha
trovato più
semplice
individuare un
nemico – interno
o esterno – cui
scaricare colpe
che per
definizione non
possono che
essere di un
intero popolo.
D’altra parte,
il genere umano
è
tendenzialmente
portato ad
auto-ingannarsi
per trovare
conforto
interiore, e gli
italiani in
questo sono
campioni del
mondo. Ma se
questa
inclinazione è
fisiologica,
negli ultimi
tempi la nostra
è diventata una
grave patologia:
non sappiamo e
non vogliamo
vedere dove
stiamo andando
per non essere
costretti a
dover accettare
ciò che serve
fare per
invertire la
rotta.
Non lo fa la
classe politica,
ridotta a puro
specchio di ciò
che rappresenta,
che preferisce
organizzare la
propria
esistenza sulla
contrapposizione
che nasce dalla
reciproca
attribuzione
delle colpe
anziché sulla
dialettica delle
idee e delle
proposte. E non
lo fanno i
cittadini, che
accettano di
essere trattati
da sudditi pur
di non guardare
in faccia la
realtà e
regolare di
conseguenza
l’attribuzione
del proprio
consenso. Tutto
questo ha
trascinato il
Paese sull’orlo
del precipizio,
però senza che
mai ci finisse
davvero dentro,
perché due
potenti freni
hanno rallentato
la corsa verso
l’abisso e fatto
da
ammortizzatori
sociali: la
ricchezza
accumulata, che
anche grazie al
sommerso e
all’evasione
fiscale è molto
più diffusa e
articolata di
quanto la
fotografia
ufficiale e la
narrazione
conformista non
la rendano
visibile; e lo
sdoppiamento tra
il paese legale,
immerso in una
formalità
giuridica iper
regolata, e il
paese
sostanziale,
talmente
impegnato a
eludere i
vincoli da
incorrere
frequentemente
nell’irregolarità
e
nell’illegalità,
favorito in
questo dalla
montagna di
eccezioni che la
stessa bulimia
normativa
partorisce. È
quella che Luca
Ricolfi ha
chiamato, con
sintesi
efficace, la
“società
signorile di
massa”. Che in
questi anni ha
vissuto in un
equilibrio allo
stesso tempo
reale, perché
effettivo, e
apparente,
perché frutto di
un colossale
equivoco, e
dunque destinato
a non poter
durare: quello
che si è creato
tra il benessere
diffuso e tre
talloni
d’Achille che ci
rendono
fragilissimi: la
prolungata
mancanza di
crescita
economica,
l’enorme debito
pubblico
accumulato e una
percentuale
molto bassa di
bassa di persone
che lavorano (su
più di 60
milioni di
residenti, gli
occupati sono
circa 23,4
milioni, ovvero
il 39,1%, mentre
il tasso degli
occupati sul
totale degli
attivi è del
59%).
Ora, però, il
Covid sta per
rendere nudo il
re. Quel fragile
equilibrio,
basato su
un’illusione
ottica, non
avrebbe comunque
retto. Ci
eravamo andati
vicini nel 2011,
per effetto
dello spread che
era stata la
spia
dell’insostenibilità
del debito, e
quindi della
nostra
condizione più
generale. Poi ci
abbiamo messo
una pezza, e la
storia
s’incaricherà
prima o poi di
rendere merito a
Elsa Fornero
della sua
riforma (pur con
tutti i limiti
che aveva) che
ci impedì di
fare default.
Ora la crisi
economica
scaturita
dall’emergenza
sanitaria – che
è mondiale – ma
anche dalla
nostra peculiare
gestione della
medesima, che
accentua le già
forti asimmetrie
in atto, apre
sotto i nostri
piedi una
voragine dentro
la quale sarà
quasi
impossibile non
cascare. Da un
lato gioca la
dimensione della
recessione. La
botta sul pil
sarà tremenda,
doppia di quella
del 2008: se va
bene (si fa per
dire) sarà del
10-11%, se va
male tra il 12%
e il 15%, se va
rovinosamente
tra il 16% e il
20%. Ma ancor
più importante è
la portata del
rimbalzo che si
realizzerà nel
2021: sotto la
metà della
perdita di
ricchezza
nazionale di
quest’anno
sarebbe un
disastro, mentre
solo un recupero
di due terzi
arrecherebbe
sollievo.
I numeri del pil
determineranno
la tenuta del
nostro debito
pubblico ben più
di quanto non lo
faccia
l’aumento, anche
molto pesante,
del debito
stesso: nel
rapporto
debito-pil, se
il denominatore
non crolla
consente al
numeratore di
crescere non
dico senza
limite, ma con
una certa
libertà, mentre
se dovesse
crollare allora
anche il
contenimento del
nuovo
indebitamento
sarebbe inutile.
Intendo dire che
il debito al
160% (come si
prevede) o anche
al 170-180% del
pil, se è frutto
di tanto nuovo
deficit ma di
una caduta del
pil contenuta e
di un rimbalzo
nel 2021
sostenuto, non
creerà troppi
maldipancia sui
mercati;
viceversa, con
un debito-pil
che si ferma al
155-160% perché
il nuovo deficit
è relativamente
(alla situazione
data) poco, ma
contabilizza una
caduta del
prodotto forte e
un insufficiente
rimbalzo, allora
saranno guai.
Naturalmente
questi numeri
non sono
estrazioni del
Lotto, ma la
diretta
conseguenza
delle politiche
messe in atto.
Ed è qui che
temo caschi
l’asino. Per il
combinato
disposto di due
cose. La prima è
data dalla somma
degli errori
commessi nel
pensare le
risposte
emergenziali
alla crisi con i
ritardi
accumulati nel
renderle
operative –
dall’uso delle
banche, senza
dare loro
manleva, per la
gestione della
liquidità (poca)
offerta alle
imprese, al
mancato
pagamento della
cassa
integrazione a
molti di coloro
cui era stata
promessa – la
seconda è la
totale mancanza,
almeno fin qui,
di provvedimenti
strategici per
il rilancio
della nostra
economia e non
solo mirati alla
riapertura dopo
il lungo
lockdown. Ho
motivo di
dubitare
dell’efficacia
del decreto
cosiddetto
“liquidità” – e
qui ci sono già
molte pezze
d’appoggio – e
ancor più di
quello ultimo,
impropriamente
chiamato
“rilancio”, che
ancora deve
affrontare la
“prova budino”.
Ma sono comunque
interventi di
assistenza e
sostegno, in
certa misura
dovuti e in
altra meno, che
in taluni casi
si riveleranno
insufficienti
(su tutti il
turismo) e in
altri fin troppo
abbondanti o
addirittura
superflui (e
sarà difficile
evitare che
ciononostante
diventino
permanenti). In
tutti i casi non
sono misure di
rilancio
dell’economia, e
tantomeno di
ridefinizione
del nostro
modello di
sviluppo. E,
senza nulla
togliere al
sollievo di chi
soffre, saranno
queste ultime –
se ci saranno,
quando ci
saranno (il
fattore tempo è
decisivo) e come
saranno
concepite – a
fare la vera
differenza. A
dirci se potremo
in qualche modo,
ancora una
volta, evitare
il fallimento.
Sto parlando di
una terapia
d’urto, la cui
efficacia deve
essere misurata
in un solo modo:
il ritorno,
diretto e
immediato, sul
pil. Qui di
solito anche tra
chi è convinto
della necessità
di questo shock,
ci si divide: i
liberisti, che
vogliono un
drastico taglio
delle tasse in
nome del
principio “più
mercato, meno
Stato”; i
keynesiani, che
auspicano
investimenti
pubblici; gli
statalisti, che
predicano
nazionalizzazioni
a tutto spiano e
rovesciano lo
slogan
turbo-capitalista
in “solo Stato,
niente mercato”.
Io credo che
l’Italia sia
deficitaria
tanto di mercato
– perché vanno
rimossi anni di
leggi e
regolamenti tesi
a limitare,
quando non a
criminalizzare e
a impedire, la
libera attività
delle imprese, a
favore di un
mandarinato
burocratico
prepotente e
soffocante –
quanto di Stato,
inteso come
programmatore,
regolatore della
politica
industriale (è
politica la
scelta del
modello di
sviluppo) ed
eventualmente
imprenditore,
laddove i
privati non
arrivano (dunque
non salvatore di
aziende decotte
e dei relativi
posti di lavoro,
ma investitore
in settori
strategici di
cui il sistema
paese è
sguarnito).
Ma arrivo a dire
che mi va bene
qualunque shock,
basta che sia
tale, piuttosto
che la solita
marmellata di
provvedimenti a
pioggia
finalizzati alla
ricerca del
consenso, anche
se ammantati
dietro l’idea
(già
abbondantemente
dimostratasi
fallimentare
negli anni
scorsi) del
sostegno ai
consumi. Perché
la cosa più
grave che ci può
accadere è che
la montagna di
debito
accumulata
pre-Covid,
pericolosa non
solo per la sua
dimensione
rispetto al pil
(134%) ma
soprattutto
perché non ha
generato
crescita,
essendo soldi
usati solo per
spesa corrente,
s’ingrandisca a
dismisura – se
fosse vero, e in
parte lo è, che
all’Italia
servono
1000-1500
miliardi,
significherebbe
aggiungere
intorno alla
metà
dell’attuale
indebitamento
(2430 miliardi)
arrivando tra i
3500 e i 4mila
miliardi – anche
in questo caso
senza produrre
una crescita
proporzionata
alle risorse
impiegate. A
quel punto la
deriva argentina
non ce la toglie
nessuno. Certo,
l’Europa non ha
interesse a
farci fallire –
secondo il
classico “too
big to fail” –
ma, come
dimostra la
sentenza della
Corte
Costituzionale
tedesca, la Bce
non potrà
indefinitamente
sostenere un
paese incapace
di darsi una
regolata, non
fosse altro
perché ogni
governo
continentale ha
la sua opinione
pubblica a cui
rispondere e i
suoi populisti
che premono alle
porte (mentre
noi li abbiamo
già promossi al
governo e alla
leadership
dell’opposizione).
Siamo
consapevoli, noi
italiani, che
questa è la
situazione in
cui siamo e
questi sono i
pericoli che
incombono sulla
nostra testa, e
già nei prossimi
decisivi mesi?
Siamo
consapevoli che
questa volta la
portata della
crisi non ci
consentirà di
metterci le
solite pezze, ma
che il Paese va
ripensato da
capo a piedi e
rivoltato come
un calzino?
Almeno lo sono
gli imprenditori
e i loro
dipendenti e i
milioni di
lavoratori
autonomi, cioè
coloro che
finora hanno
sorretto
l’Italia
evitandole il
crash? Guardate
che la
consapevolezza
serve ora, non
quando la
frittata sarà
fatta.
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