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LE EUROTANGENTI
E I "MINIMA
MORALIA" DELLA
SINISTRA |
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Sono giorni che
siamo costretti
ad assistere al
grottesco
tentativo dei "giornaloni"
italiani di
nascondere
l'imbarazzo nel
trattare la
notizia delle
tangenti che si
sospetta siano
state pagate da
rappresentanti
del Qatar a
esponenti della
sinistra
europea, allo
scopo di
attenuare la
pessima fama
rimediata dal
Paese
mediorientale in
materia di
diritti umani e
dei lavoratori.
Il fatto certo è
che l'ex
europarlamentare
del Partito
Democratico,
passato ad
Articolo 1,
Antonio Panzeri,
in rapporti con
personaggi
qatarioti, sia
stato trovato in
possesso di una
grossa somma in
contanti nel
corso di una
perquisizione
disposta
dall'autorità
giudiziaria
belga. Le
ipotesi di reato
contestate sono
di associazione
a delinquere,
riciclaggio e
corruzione.
Insieme al
Panzeri sono
stati tratti in
arresto con la
medesima accusa
Francesco
Giorgi,
assistente
parlamentare
dell'eurodeputato
nelle passate
legislature e
oggi nella
segreteria
dell'europarlamentare
del Pd, Andrea
Cozzolino;
Niccolò
Figà-Talamanca,
direttore della
Ong No Peace
Without Justice
che opera a
Bruxelles. Ai
domiciliari,
sono finite la
moglie e la
figlia del
Panzeri.
Nell'indagine è
stato coinvolto
anche il
sindacalista
Luca Visentini,
segretario della
Confederazione
internazionale
dei sindacati,
di cui era stato
disposto il
fermo, poi
rilasciato dal
giudice
istruttore belga
che non ne ha
confermato
l'arresto.
Ma non è finita.
Sono stati
perquisiti gli
uffici di
Federica
Garbagnati,
assistente
dell'eurodeputata
Alessandra
Moretti; di
Giuseppe Meroni,
in passato
assistente di
Panzeri e oggi
in forza allo
staff di Lara
Comi,
eurodeputata di
Forza Italia; di
Donatella
Rostagno,
esperta di
Africa
sub-sahariana e
di Medioriente,
già
collaboratrice
di Panzeri e
oggi assistente
dell'europarlamentare
belga di origine
italiana, Maria
Arena, inoltre
componente del
board della Ong
"Fight Impunity",
fondata da
Panzeri e
oggetto di
indagini della
procura di
Bruxelles.
Come si noterà,
sono tutti
personaggi di
sinistra e sono
tutti italiani.
A dare un tocco
di
internazionalità
vi è tra gli
arrestati colei
che per gli
inquirenti belgi
potrebbe
risultare il
"gioiello della
collezione": la
greca Eva Kaili,
vicepresidente
del Parlamento
europeo, colta
con un mare di
banconote tra le
mura domestiche.
Peccato, però,
che anche
l'affascinante
politica
ellenica sia
riconducibile
all'Italian
Connection per
essere la
compagna di uno
degli indagati
nell'inchiesta
in corso. Fonti
di Bruxelles
sostengono che
lo scandalo
esploso sia solo
la punta
dell'iceberg di
un'inchiesta
destinata a
travolgere la
credibilità del
Parlamento
europeo.
Inoltre, altri
eurodeputati
sarebbero nel
mirino degli
inquirenti. Tra
costoro vi è
l'eurodeputato
belga Marc
Tarabella, di
evidenti origini
italiane, che si
è autosospeso
dal gruppo al
Parlamento
europeo Alleanza
Progressista dei
Socialisti e dei
Democratici (S&D).
È una brutta
storia, che
macchia
l'immagine del
Paese e dà fiato
ai nostri
detrattori
esteri, che
potranno dire
con perfido
sarcasmo: sono i
soliti italiani.
Tuttavia, per
quanto la
faccenda sia in
sé disgustosa,
non sono loro, i
presunti
"mariuoli", a
farci
maggiormente del
male. C'è una
sinistra che per
anni è stata
campionessa del
più servile
filo-europeismo
che ha portato
l'Italia a
essere un paria
del consesso
europeo. La
nostra Patria,
così bella e
così fiera della
sua millenaria
storia, piegata
e piagata dalla
tracotanza del
suo nemico più
subdolo: la
sinistra interna
che da decenni
sbandiera, a
sproposito, la
sua superiorità
morale rispetto
al nemico
ontologico che
sta a destra.
Superiore un
corno! Non
facciamo che si
caschi tutti dal
pero. Alla
superiorità
morale della
sinistra non
abbiamo mai
creduto. È stata
una menzogna
sulla quale i
superstiti della
stagione di
Tangentopoli
hanno costruito
il loro diritto
a impadronirsi
dell'Italia. Al
più, è stata
scambiata per
superiorità una
naturale
inclinazione
all'arroganza
ingiustificata
che, tuttavia,
ha funzionato da
postulato alla
pretesa impunità
dei capi e dei
quadri intermedi
dell'ex Partito
Comunista ai
tempi di
Tangentopoli e
durante la
Seconda
Repubblica.
La ricordate la
stagione delle
Mani Pulite? Il
vento della
giustizia spazzò
via la classe
politica
dominante della
Prima
Repubblica.
Tutti colpiti e
abbattuti:
Democrazia
Cristiana,
Partito
Socialista
Italiano,
Partito
Socialdemocratico
Italiano,
Partito Liberale
Italiano,
Partito
Repubblicano
Italiano e Primo
Greganti. Non
l'ex Partito
Comunista
Italiano che era
diventato Pds,
Partito
Democratico
della Sinistra,
ma solo
l'"eroico"
compagno Primo
Greganti,
beccato con le
mani nel sacco
ma che ebbe il
buon gusto di
non tirare in
ballo nessuno
dei suoi.
Eppure, salvare
la faccia del
partito non
avrebbe dovuto
corrispondere a
certificarne
l'innocenza in
fatto di
mazzette
incassate. Come
quella
misteriosa
valigetta con un
miliardo di lire
che il povero
Raul Gardini
aveva portato a
Botteghe Oscure,
sede del Pci. Di
quella squallida
vicenda non si è
mai conosciuto
il nome
dell'elemosiniere
di Palazzo che
la ricevette in
dono per la
giusta causa. La
maxi-mazzetta
Enimont, benché
regolarmente
versata ai
"compagni", non
poteva essere
attribuita
penalmente a
nessuno degli
inquilini di
Botteghe Oscure
in ragione
dell'assioma
sulla
superiorità
morale della
sinistra.
Perciò, riguardo
all'illibatezza
della sinistra,
niente di nuovo
sotto il sole.
Panzeri e soci,
se dovessero
essere
confermate le
accuse,
sarebbero
soltanto un
particolare
pittoresco di
una lunga storia
di illegalità
compiute al
riparo di una
sfacciata
menzogna. Ciò
che infastidisce
è la pretesa di
alcuni
commentatori al
servizio dei
"buoni", pur al
cospetto
dell'evidenza
dei fatti, di
gettare comunque
la croce nel
campo della
destra. È il
caso del
politologo Piero
Ignazi che,
dalle colonne
del Domani, li
batte tutti.
Cosa scrive
Ignazi da far
accapponare la
pelle?
1) La destra non
può cantare
vittoria perché,
in fatto di
furfanterie,
essa risulta
ampiamente in
testa. Il
benchmark per
misurare chi sia
più "sporco" è
la ripartizione
per appartenenza
politica degli
inquisiti e
condannati oggi
presenti in
Parlamento: 29
del centrodestra
contro 5 del Pd.
2) La sinistra
caccia o
sospende i
propri membri
coinvolti in
fatti illeciti
mentre il
centrodestra si
chiude a riccio
in difesa dei
suoi inquisiti.
Capite come
funziona per
questa razza di
ipocriti? La
pretesa censoria
da peccato
originale rende,
agli occhi delle
anime belle che
la esercitano,
irredimibili
coloro che sono
ontologicamente
nemici. Ignazi
si fa interprete
di una
rappresentazione
del Bene
assoluto che non
viene scalfito
dai
comportamenti
delittuosi dei
suoi assertori.
Neanche quando
il modo
disinvolto dei
"compagni" di
accettare denaro
spalanca le
porte della
nostra civiltà a
mondi che
restano distanti
anni luce da
essa. Come
quello delle
dinastie arabe
del Golfo
Persico. È una
cosa orribile
che si pretenda
di fare di tutta
l'erba un
fascio.
Se le cose si
mettono male per
la sinistra, la
si butta in
caciara evocando
un comodo,
mozartiano,
"così fan
tutte". No, cari
compagni e
compagne, così
non fanno tutti.
Non lo fanno
quelli di
destra. Loro non
danno via i
sacri principi
per gonfiarsi le
tasche di
denaro. E non
l'hanno fatto
quelli della
Lega quando sono
stati coperti di
fango per aver
parlato bene
della Russia e
del suo leader.
Il teorema
accusatorio
contro Matteo
Salvini e i suoi
era basato,
evidentemente,
sull'esperienza
maturata sul
campo: se si
parla bene di
qualcuno inviso
agli altri, lo
si fa per
denaro.
Stavolta, la
diversità morale
la tiriamo fuori
noi. Perché non
c'è
parificazione
che tenga con
chi svende i
fondamenti della
civiltà a cui
appartiene per
intascare un
"pizzo". I
qatarioti non ci
amano. Se
provano a
comprarci è
perché ci
vogliono
cambiare, ma non
prima di aver
lucrato
abbondantemente
sulle nostre
debolezze.
Ora, a sinistra
ci sono
"compagni" che
vogliono
riempirsi le
tasche e fare
vacanze da
nababbi grazie
al malaffare?
Affaracci loro e
della Giustizia
che li deve
stanare. Ma ci
risparmino la
lezioncina
morale per
pararsi le
natiche quando
vengono beccati
con le dita
nella
marmellata.
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M5S: QUALCUNO
VOLO SUL NIDO
DEL CUCULO |
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È credibile
Giuseppe Conte
come guida
dell'opposizione
al Governo
Meloni? Per
rispondere alla
domanda è
necessario prima
capire quale
opposizione
intenda
intestarsi il
leader dei
Cinque Stelle.
E, soprattutto,
bisogna
chiedersi se la
strada scelta
per contrapporsi
al centrodestra
sia definitiva o
invece
corrisponda a
una
rappresentazione
della postura
che l'ex premier
mette in scena,
salvo a
stravolgerla ove
le circostanze
politiche - e le
convenienze
elettorali - lo
richiedessero.
Una tale
volubilità per
qualsiasi
politico sarebbe
un'onta. Non lo
è per il
deputato
Giuseppe Conte
che del
trasformismo
ideologico, il
più odioso, ha
fatto la sua
cifra
identificativa.
L'ex premier si
scopre
capopopolo a
difesa dei più
deboli e
brandisce il
Reddito di
cittadinanza
come una spada
con la quale
trafiggere i
nemici politici.
Un tempo, un
personaggio del
genere lo si
sarebbe definito
opportunista.
All'avvocato di
Volturara Appula,
invece, non
dispiacerebbe
essere inserito
nell'albero
genealogico
della sinistra.
Ma sarebbe un
intruso. Conte,
nel rapporto con
la sinistra,
vive la sindrome
del cuculo,
l'uccello
parassita. Il
cuculo, ancora
implume
s'insinua nel
nido di un
uccello di altra
specie, ne
elimina le uova
presenti,
scaccia i nati
della nidiata e
si fa nutrire
dalla madre
surrogata. Che
poi non è
diverso, in
fatto di tecnica
dello scrocco,
da ciò che il
leader
cinquestelle ha
fatto e continua
a fare a spese
della sinistra
tradizionale.
Prima si è
inserito in un
campo non suo,
perché il
grillismo di cui
si è
impossessato è
nato sul
presupposto
intangibile
della terzietà
rispetto ai
blocchi storici
della destra e
della sinistra.
Dopo un periodo
di coabitazione
nell'area
progressista, il
"cuculo" Conte
ha cominciato a
strattonare il
legittimo
abitatore di
quel nido, il
Partito
Democratico,
fino a spingere
il suo leader,
Enrico Letta,
giù nel vuoto. E
adesso, stando
ai sondaggi, il
"cuculo"
comincia a
succhiare il
nutrimento del
campo largo
progressista,
nella forma di
occupazione
dello spazio
politico, al
punto che
qualche esperto
pronostica per
il Pd una fine
per
prosciugamento
uguale a quella
del defunto
Partito
socialista
francese.
Ora, il signor
Conte potrà pure
camuffarsi da
cuculo e rubare
il pane di
altri, ma questo
non farà mai di
lui un erede
della cultura
politica della
sinistra
occidentale per
l'evidente
ragione che la
somma di
populismo e
qualunquismo,
che il deputato
Conte ha stipato
alla rinfusa nel
suo bagaglio
ideologico, mal
si combinano con
i valori e le
finalità della
visione
socialista. La
teoria
socialista,
riguardo al
fenomeno della
disoccupazione,
fonda
sull'analisi
originaria di
Karl Marx che
per primo
attribuisce una
forte
soggettività
alla classe
operaia quale
agente della
storia. A
differenza della
centralità della
divisione tra
oppressi e
oppressori nella
teoria marxiana,
per Marx i
disoccupati sono
assimilati alla
plebaglia,
venale,
sottoproletaria,
della "terza
classe". Essi
rappresentano un
pericolo per la
lotta di classe
del proletariato
contro la
borghesia, in
quanto sono
l'"esercito
industriale di
riserva" del
capitale e
pertanto possono
allearsi
indistintamente
con ciascuna
delle due parti
in lotta. Per il
padre del
comunismo, la
massa di
diseredati privi
di lavoro e di
coscienza di
classe è
un'escrescenza
della società
che genera una
condizione di
"sovrappopolazione
relativa",
funzionale allo
sviluppo
dell'economia
capitalistica.
L'idea di tenere
masse
d'individui
inoccupati a
carico
dell'assistenza
pubblica con
forme di
sussidio slegate
dall'obbligo di
qualsiasi tipo
di prestazione
lavorativa non
sarebbe mai
potuta
appartenere alla
sinistra che, in
una logica di
evoluzionismo
sociale di
matrice
positivistica,
ha posto in
connessione il
riscatto del
proletario con
il recupero
pieno della sua
dignità di
essere umano.
Giuseppe Conte
questa cosa non
l'ha capita.
Gioca a fare
l'intellettuale
organico al
popolo su parole
d'ordine e
obiettivi, come
la perpetuazione
a tempo
indeterminato
del pubblico
sussidio, che
allontanano la
filosofia del
Reddito di
cittadinanza dal
socialismo
mentre
l'avvicinano a
quella delle
Power Laws del
Medioevo
anglosassone.
Conte sceglie di
farsi riprendere
dalle telecamere
mentre arringa i
disperati che
vivono la
marginalità
delle periferie.
Ma anche in
questo caso la
superficialità
del suo
messaggio
incrocia
l'insufficienza
delle sue
analisi
politiche. È
accaduto di
recente. L'ex
premier si è
concesso ai
media dalla
piazza di
Scampia, per
l'occasione
affollata da una
massa di
questuanti
desiderosi di
rassicurazioni
sulle future
erogazioni del
Reddito di
cittadinanza.
Cosa c'era di
sbagliato in
quelle immagini?
Tutto. A
cominciare dalla
riproposizione
di un vecchio
cliché che vuole
il quartiere
napoletano di
Scampia, insieme
allo Zen di
Palermo e al
Corviale di
Roma, paradigma
del degrado
economico,
sociale e morale
annidato nelle
viscere della
nazione. Uno
stigma che ha
fatto la fortuna
di molti
ciarlatani
camuffati da
intellettuali e
di venditori di
fumo in stile "Gomorra".
Sebbene
innegabili, la
marginalità e i
processi
segregativi
indotti da una
errata
interpretazione
del Piano
Straordinario di
Edilizia
Residenziale (Pser)
per Napoli,
varato dopo il
terremoto del
1980, si
associano alla
presenza di
realtà
socio-economiche
del ceto medio
borghese,
presenti in loco
a seguito degli
interventi di
edilizia
sovvenzionata e
di cooperative
abitative
private. Scampia
la si può
definire un
modello di
urbanizzazione
stratificata che
rispecchia la
periferia
europea. Se ne
ricava che solo
una parte del
quartiere può
essere
ricondotta allo
stereotipo di
"fabbrica della
marginalità". È
vero che la fama
di piazza dello
spaccio di
stupefacenti più
pericolosa
d'Europa Scampia
l'abbia
guadagnata con
la costruzione
delle sette Vele
le quali, per le
caratteristiche
della
popolazione lì
alloggiata, si
sono trasformate
ben presto in un
microcosmo
criminale
all'interno di
un macrocosmo
del disagio.
Ciò, tuttavia,
non fa di
Scampia un
quartiere di
tutti disperati
o, peggio, di
tutti
delinquenti.
Un'indagine
sociologica
svolta per
individuare i
profili
ricorrenti delle
categorie
socio-produttive
della generalità
dei residenti
nel quartiere
tratteggia un
quadro
sorprendente per
eterogeneità.
Scrive al
riguardo Fabio
Amato in
"Periferie
plurali: il caso
di Scampia oltre
gli stigmi":
"lavoratori
dipendenti di
industria e
servizi,
assegnatari di
alloggi Iacp
provenienti da
altre periferie;
assegnatari
senza tetto;
proprietari
degli alloggi
negli edifici
delle
cooperative
provenienti da
zone urbane ed
extraurbane;
occupanti
abusivi in
edifici di
edilizia
pubblica,
soprattutto
quelli non
completati;
abusivi che
occupano i piani
terra
seminterrati,
perciò chiamati
'scantinatisti';
infine Rom nel
campo nomadi di
Cupa Perillo,
sito in un'area
posta al di
sotto del
cavalcavia
dell'Asse
perimetrale
Melito-Scampia".
Di tutta questa
varia umanità,
Giuseppe Conte
chi intende
rappresentare?
Vi è un segmento
di popolazione
residente che
vive dei
proventi delle
attività
illegali e
criminali.
Costoro,
risultando
nullatenenti
alla fiscalità
generale, sono
in prevalenza
percettori del
Reddito di
cittadinanza.
Attenzione,
però. Nel caso
specifico, non
parliamo di un
sostegno vitale
offerto dallo
Stato a
individui
totalmente
indigenti.
Traendo profitto
da attività
illegali, il
sussidio per
costoro va
classificato
come
integrazione al
reddito di
provenienza
illegale. È
questo mondo che
Conte vuole
tutelare? E
quando insinua
che un eventuale
taglio della
misura
assistenziale
potrebbe
provocare una
violenta
reazione
sociale, a cosa
allude? Alla
capacità delle
organizzazioni
criminali di
fare massa
critica allo
scopo di
alimentare
spinte eversive
e ribelliste?
L'avvocato in
pochette sta
scherzando col
fuoco. Nella sua
strategia si
scorge
l'illusione di
replicare il
trionfo del
primo grillismo,
nel 2013,
generato
dall'intuizione
che fu di
Gianroberto
Casaleggio di
canalizzare la
protesta sociale
e gestirla
nell'alveo
dell'ordine
costituzionale.
Ma non è detto
che ciò che
funzionò dieci
anni orsono
funzionerebbe
oggi allo stesso
modo. Sono
cambiati i tempi
ed è peggiorato
il contesto
generale. Se a
muovere le
piazze di domani
dovessero essere
soggetti
provenienti da
mondi antitetici
alla società
ordinata dalle
leggi, Conte si
troverebbe
stretto tra due
fuochi: la
difesa dello
Stato da una
parte e,
dall'altra, la
tentazione di
guidare contro
le istituzioni
democratiche
quella che Marx
ed Engels
definivano la
plebaglia dei
lazzaroni. Per
le dissennate
parole
pronunciate da
Conte in questi
giorni qualcuno
ha evocato la
figura,
drammatica per
la storia
d'Italia, del
"cattivo
maestro".
Dissentiamo. A
noi, il Conte
visto in azione
ricorda le
fattezze, goffe
e pasticcione,
di un
apprendista
stregone.
Comunque, non ci
piacciano
entrambe. |
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I REGALI
INATTESI |
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In verità, avrei
voluto attendere
il prossimo anno
per scrivere sul
'nuovo' governo
perché il breve
tempo trascorso
dal suo
insediamento, a
mio sommesso
avviso, non era
sufficiente per
cominciare una
seria opera di
analisi
(ovviamente,
secondo le mie
possibilità e
capacità). Ma
sono stato
costretto a
ricredermi
perché dalla
stampa ho
appreso
l'intenzione del
reggitore del
dicastero degli
Interni di
riformare il
Codice della
Strada e di
introdurre delle
novità
restrittive. Un
'regalo' (seppur
da ricevere nel
prossimo futuro)
che sotto le
Feste non può
essere ignorato
senza i dovuti
'ringraziamenti'.
La motivazione
sembra nascere
dalla vetustà
del predetto
Codice,
trent'anni,
incentivata dai
recenti, tragici
fatti che hanno
visto coinvolti
giovani in stato
di ebbrezza
quando non sotto
l'effetto di
sostanze
stupefacenti. E,
peraltro, il
recente rapporto
Dekra sulla
sicurezza
stradale sembra
dare ragione
all'atteggiamento
del governo
nell'affermare
che nell'Unione
Europea gli
incidenti
stradali nella
fascia d'età
18-24 anni
causano nel 64%
dei casi la
morte del
guidatore o del
passeggero al
suo fianco,
rispetto al 44%
nella
popolazione
complessiva. Una
situazione,
quindi, che
postula una
necessaria
riforma.
Non ci sono
ancora le linee
dei cambiamenti.
Tuttavia, le
esternazioni sia
del ministro che
del
sottosegretario
deputato
lasciano un po'
perplessi. Non
discuto
sull'esame circa
l'uso del
cellulare alla
guida o in
merito alla
guida
spregiudicata in
monopattino
elettrico. Nel
contempo, non
voglio far la
parte del povero
padre sempre
pronto a
giustificare il
figliol prodigo
ma qualcuno,
intanto,
potrebbe
chiedersi perché
una consistente
parte giovani è
oggi così fatua?
Potrebbe
domandarsi
perché avverte
la necessità di
bere e di
sballarsi? Non
voglio certo
avviare
un'indagine
sociologica, ma
è innegabile che
nei trent'anni
trascorsi è
stato posto in
essere un
dannato sistema
altamente
competitivo e
specializzato
dove o si corre,
anche a danno
del prossimo, o
si è degli
inetti.
Un sistema che
non ha lasciato
spazio a valori
e a tradizioni,
che non ha
ammesso ideali,
sentimenti e
passioni, che ha
elevato la
precarietà come
condizione di
vita cancellando
la speranza,
determinando,
per conseguenza,
laddove le
condizioni e i
contesti non
sono stati
benigni, una
latente
insoddisfazione
e una voglia di
'fuga', fisica e
metaforica,
accompagnata da
vasta
superficialità
quando non da
rabbia. E così,
oggi, a distanza
di trent'anni
dalla posa della
prima pietra
dell'avvento del
'Progresso', nel
costatare i
risultati
l'unico
atteggiamento
che, come rumore
di scopa nuova
ci viene in
mente, è quello
di inasprire le
sanzioni.
Non basta
l'omicidio
stradale,
relativamente
nuovo conio
legale, come se
la
configurazione
giuridica del
delitto, nelle
tipologie e
nelle modalità
di esecuzione,
possa assumere
una forma
diversa dal
volontario,
colposo,
preterintenzionale
o premeditato:
condizioni tutte
applicabili in
una casa, in un
luogo pubblico o
su una strada.
Ma lasciamo
stare. Nelle
recenti
esternazioni si
parla del ritiro
della patente a
vita. Per l'amor
di Dio, non sono
un garantista ma
ciò
significherebbe
che la legge (e
i suoi principi)
non è uguale per
tutti. Togliamo
pure
definitivamente
la patente a chi
ha falciato
pedoni o altri
automobilisti
sotto l'effetto
dell'alcool o
della droga ma,
nel contempo,
dobbiamo
necessariamente
adeguare la
legislazione per
gli altri
'omicidi',
comunque
avvenuti sotto
sostanze che,
appunto, hanno
alterato la
coscienza.
Altrimenti, è
becera demagogia
perché a fare la
differenza
sarebbe solo lo
strumento del
delitto, l'auto.
Mi verrebbe da
dire che ben più
stringenti
sanzioni
andrebbero
varate per altri
reati a
prescindere per
un attimo dalla
droga e
dall'alcool ma
stavolta
correrei io il
rischio di
scadere nel
populismo.
Passiamo,
quindi, anche
sopra la
ventilata
proposta di
avere
obbligatoriamente
in auto il test
per
l'auto-misurazione
del tasso
alcolemico
perché ci
sarebbe da fare
un gesto che
avrebbe il
sapore
dell'irriverenza.
Speriamo che,
perdurando
l'ipotesi, i
rappresentanti
delle
prestigiose
cantine italiche
facciano
quadrato e
spieghino al
responsabile del
dicastero che un
bicchiere di
vino a tavola,
oltre a far bene
alla salute e
all'economia del
Paese, non ha
mai ucciso
nessuno.
Il fenomeno
deprecabile
dell'ubriachezza
alla guida è
sorto proprio
quando la
società ha
iniziato a
sfaldarsi,
peraltro non a
causa del vino
bensì dei
superalcolici,
fenomeno tipico
dei Paesi del
Nord Europa. Lì,
la società non
si è sfaldata
come da noi ma
non ha stimoli,
paga un 'botto'
di tasse e ai
bisogni provvede
lo Stato. Non
come da noi che
paghiamo
ugualmente nu
sacch'e renar
per non avere
alcunché. Così,
almeno abbiamo
quelle
esortazioni
compensative che
ci fanno
apprezzare la
tavola, pur
smadonnando per
le bischerate
governative.
L'ulteriore
esternazione,
tuttavia, non
può passare
sotto silenzio:
l'entità della
contravvenzione,
della multa,
variabile in
base al reddito
del reo. Be',
questa è roba da
gatti fradici,
si direbbe a
Pisa. Ed il
bello è che da
quel dicastero
si sono
affannati a dire
che un tale
sistema è in
essere da tempo
in Germania,
Danimarca,
Svezia, Francia,
Svizzera, Belgio
e, da ultimo, in
Gran Bretagna.
Non ho grandi
risorse, vivo di
pensione, quindi
non è per me che
parlo né,
tantomeno, ho a
cuore le sorti
dei 'dotati'
economicamente
ma ciò significa
che di nostro
non abbiamo più
niente.
Prima, quando è
iniziato lo
'smantellamento'
sociale, il faro
di riferimento,
la luce guida,
erano gli States.
La competizione,
la flessibilità,
la velocità di
reazione,
l'adattamento
all'andamento
del mercato, e
via dicendo. In
pratica, abbiamo
fatto inchinare
(purtroppo, non
solo noi) uno
Stato
all'economia,
una collettività
nazionale prona
ai voleri di un
ristretto gruppo
di persone
(sempre più
rimpicciolito),
dopo aver
distrutto tutti
quegli strumenti
che consentivano
una ripartizione
equa del reddito
prodotto. Così,
in nome degli
States e al pari
di questi, le
disparità, i
baratri sociali,
sono di tutta
evidenza. Ma,
almeno là, la
mobilità ha un
senso. Da noi,
si può pensare
che spostandosi
da Roma, da
Napoli, da Bari,
da Palermo a
Milano il lavoro
si trovi checché
ne dica l'ISTAT
che si affanna a
dichiarare
incrementi a
tutto spiano?
Adesso, da noi,
il riferimento
sociale ed
economico degli
States è andato
scemando e, ora
che ci penso,
abbiamo
trascorso un
periodo dove
l'obiettivo era
l'elemosina e la
depressione
sociale. Non
vorrei che
adesso altri
punti di
riferimento
sorgano
all'orizzonte,
tipo appunto i
Paesi nordici
europei. Perché,
a volerli
davvero
considerare,
avremmo di che
'saccheggiare'
con gusto e a
iosa e non solo
citarli quando
serve la pezza a
colore. Ma, a
voler restare
nel campo
dell'auto e
della strada,
intanto, in
Germania non ci
sono limiti di
velocità e i
pochissimi che
sussistono è
bene rispettarli
perché le
sanzioni sono
alquanto dure, a
prescindere dal
reddito. Da noi,
un po' come
l'inferno
italiano
paragonato a
quello tedesco
nella
barzelletta: una
volta manca il
martello per
schiacciare i
cabasisi e una
volta manca la
cacca per
coprire. Dalla
sentenza che di
fatto ha abolito
i tutors
autostradali,
nessun altro
sistema
automatico di
rilevazione è
stato
introdotto.
Ma, poi, a dirla
tutta, nei
restanti Paesi è
vero che
l'entità della
multa è
commisurata al
reddito ma,
generalmente,
essa ha un tetto
che quasi sempre
si attesta
attorno ad un
sedicesimo
dell'introito
mensile. In
pratica,
tradotto in
Italia,
significherebbe
che con uno
stipendio medio
di 1.500 euro,
il massimo della
sanzione
verrebbe posto a
240 euro.
Qualcuno può
dire al
sottosegretario
deputato che qui
da noi per
superamento dei
limiti di
velocità, ad
esempio, la
sanzione per chi
ha e per chi non
ha, ammonta già
attorno ai 250
euro che si
raddoppiano
(costume
italiano) se non
si comunica il
nome del
guidatore?
A meno che, i
responsabili del
dicastero non
pensino a
sanzioni ben più
aspre. Allora,
alla bischerata
si sommerebbe
l'ingiustizia
perché lo scopo
ravvisabile
sarebbe solo
quello di fare
'cassa'. Nel
qual caso, i
riferimenti non
sono i Paesi del
Nord bensì
alcuni Comuni
italiani i cui
vigili sembra
abbiano
l'abitudine di
appostarsi
dietro gli
angoli, a
ridosso di un
cespuglio o alla
fine di una
larga curva per
cogliere in
fallo il
contravventore.
Le casse
comunali
languono.
Comunque, per
ora, sono solo
esternazioni.
Vedremo in
appresso ma è
certo che con la
sola demagogia
non si è mai
governato un
Paese. Servono
idee che
facciano sistema
strutturale. La
campagna
elettorale è
finita e prima
della prossima
dovrebbero
trascorrere
cinque anni.
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POLITICA |
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RAZZISMO O
CLASSISMO? |
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Il caso
Soumahoro, con
l'inevitabile
cicaleccio
politico/mediatico
di contorno, in
concomitanza con
il prosieguo di
sbarchi illegali
dall'Africa, ha
ri-attualizzato
- caso mai ce ne
fosse stato
bisogno - la
perenne
questione di un
presunto
atteggiamento
razzista da
parte degli
italiani. Non
essendo
sociologo, non
esprimo
valutazioni al
riguardo, ma, da
cittadino e
limitatamente
alla mia modesta
persona, mi
arrogo il
diritto di avere
qualche mio
convincimento in
merito.
Credo, per prima
cosa, che in
Italia si faccia
una confusa
sovrapposizione
tra "razzismo" e
"classismo".
Cosa intendo
dire? Mi si
consenta in
proposito una
breve
digressione:
Un giorno un
amico mi pose in
modo brusco la
seguente
domanda: "ma tu,
caro Antonino,
ti consideri, o
no, razzista?"
La mia risposta
fu: "no, non
potrei mai
essere razzista
in quanto mi
reputo
profondamente
classista, ma" -
continuai - "nei
limiti di una
sorta di classe
dell'animo, del
sentimento, del
comportamento,
dell'educazione,
della cultura,
cose tutte che
poco o nulla
hanno a che
vedere col
colore della
pelle, con lo
status sociale o
con il censo.
Anzi, denaro e
potere appaiono
spesso in
controtendenza
con il livello
della classe" di
spirito degli
interessati. Una
per tutte? La
mia personale
memoria di
alcuni
braccianti
agricoli nei
feudi della
Sicilia
occidentale del
secondo
dopoguerra che,
pur disponendo
di quasi nulla
di materiale
avevano, nella
loro povertà,
una
autocoscienza
della propria
dignità di
esseri umani
come parte di un
consorzio di
pari, che li
rivestiva,
appunto, di una
"classe" in
aperto contrasto
con la modestia
della loro
condizione
socio-economica".
In tutt'altro
contesto e
dimensione, ma
in modo
altrettanto
pertinente,
giova anche
ricordare come
la stucchevole
dialettica di
"razza versus
classe" venga
rappresentata in
modo molto
efficace
nell'ottimo film
"Indovina che
viene a cena"
con Spencer
Tracy, Sidney
Poitier e
Katharine
Hepburn.
Il perdurante
sguardo
interrogativo
del mio
interlocutore mi
costrinse a
dover elaborare
ulteriormente il
concetto con
paio di esempi
del tutto
teorici
affinché,
esasperandolo,
essi potessero
aiutarmi a
delineare le
caratteristiche
di un ipotetico
"razzista",
diciamo,
perfetto,
purissimo, di
natura quasi
iperuranica. Ed
altresì
evidenziare come
tali presunti
razzisti "duri &
puri", siano in
realtà molto
pochi e che
colui che di
tale
atteggiamento si
riempia la
bocca, confonda
in realtà la
"razza" con la
"classe".
Equivoco questo
alimentato in
parte anche dal
fatto che la
massa di
disperati che
sbarca sulle
nostre coste si
presenta, in
forma e
sostanza, come
composta da
persone
appartenenti
alla categoria
degli ultimi e
dunque
posizionati al
gradino più
basso della
scala sociale.
Data, ahimè, la
natura umana e
facile che essi
vengano guardati
con una sorta di
sprezzante
superiorità.
Al riguardo, e
tornando alla
provocazione,
immaginiamo
dunque che il
presunto
razzista senza
se e senza ma di
cui sopra si
veda recapitare
un ipotetico,
elegante
cartoncino in
cui si legga
qualcosa del
tipo:
"Il Presidente
degli Stati
Uniti d'America
e la Signora
Obama si
pregiano di
invitare il
Signor Tal de
Tali e Signora
al Pranzo di
gala che avrà
luogo alla Casa
Bianca il giorno
X alle ore Y.
R.S.V.P."
Con coerenza
"razziale" il
nostro eroe
dovrebbe
limitarsi a
rispondere con
convinzione: "
io per principio
non frequento
neri e, men che
meno, mai mi
siederei a
tavola con uno
di loro!" .
Molto
improbabile,
nevvero!? Credo
piuttosto che il
nostro amico si
precipiterebbe
subito a
Washington per
potersi assidere
a cotanto desco
con buona pace
del suo….
conclamato
razzismo,
evaporatosi
all'istante di
fronte alla
"classe" di
appartenenza
dell'augusto
invitante!
Su un livello
molto più
pedestre,
potremmo anche
immaginare una
seconda e più
verosimile
fattispecie:
C'è il rischio
di rimanere
bloccati per un
itero fine
settimana, a
causa di un
improvviso
guasto, nella
cabina
dell'ascensore
di un palazzo di
trenta piani ed
al nostro
iperuranico
razzista viene
data l'ipotetica
possibilità di
scegliere, come
casuale compagno
di sventura, tra
un ingegnere
nucleare
giapponese (di
cosiddetta
"razza" gialla)
ed un ragazzotto
nostrano
spacciatore di
stupefacenti (di
perfetta "razza"
bianco-lattea)
per trascorrere
insieme 36 ore
da coatti in
quattro metri
quadri. Lascio
al gentile
lettore la
risposta circa
quale potrebbe
essere la più
verosimile
scelta del
nostro amico
iper-razzista.
Quanto sopra al
semplice scopo
di sostenere un
mia convinzione
secondo la quale
qui da noi in
Italia si
confonde il
razzismo con il
classismo e per
cui ci si
scaglia contro
coloro che hanno
la pelle
diversa, non in
quanto "colored",
ma in quanto di
classe sociale,
economica e
culturale
percepita (e
spesso, di per
se stessa,
effettiva) come
inferiore. Non
dunque per
motivi di
principio o di
sentire
razzista, quanto
piuttosto in
considerazione
del loro attuale
stato di fatto
(che, in puri
termini di
lettura"spot"
del fenomeno è
spesso più che
evidente), ma
che potrebbe ben
modificarsi in
una prospettive
di più lungo
periodo. Un
esempio a
sostegno di tale
tesi? La mia
lunga esperienza
di vita
australiana che
mi consente di
testimoniare
come i primi
emigranti
italiani, giunti
in massa in quel
continente tra i
due conflitti
mondiali e poi
nel secondo
dopoguerra,
vennero accolti
da quei
bi-secolari
residenti di
origine
nord-europea ne
più ne meno come
qui da noi
l'attuale
immigrazione di
colore a
Lampedusa. Dal
mondo "aussie"
di provenienza
britannica quei
nostri
connazionali
venivano infatti
considerati
"razza"
inferiore,
pretta
manovalanza per
i lavori più
umili e chiamati
in modo
dispregiativo "diegos"
(pronunciato "daigos");
essi
costituiscono
oggi la primaria
classe dirigente
di origine non
anglosassone del
paese ed il
connazionale
Anthony Albanese
è l'attuale capo
del governo
federale. Quindi
la "classe" di
quei nostri
vecchi italiani
ha fatto, a
lungo andare,
premio sul
presunto disdoro
della loro
appartenenza
alla "razza
mediterranea" un
tempo
considerata colà
come inferiore.
" Mutatis
mutandis", lo
stesso discorso
varrebbe, tenuto
conto della sua
storia
imperiale, per
l'attuale Gran
Bretagna ed il
suo nuovo Primo
Ministro di
origine indiana.
Certo i nostri
emigranti,
ovunque essi
siano sbarcati,
negli Stati
Uniti, in Sud
America, in
Oceania e
nell'Europa del
nord hanno
saputo
riscattare, col
valore del
proprio lavoro e
con
l'intelligenza
del duttile
adattamento alle
nuove realtà
ospitanti, il
gravoso handicap
iniziale
costituito da
caratteristiche
locali, costumi
e pregiudizi
avversi nei loro
confronti, mai
ponendosi come
antagonisti al
sistema che li
accoglieva, ma,
al contrario,
adeguandosi alle
nuove differenti
realtà trovate
di volta in
volta, senza mai
considerare il
paese ospitante
come una sorta
di rifugio per
"zattere" ove su
ciascuna di esse
possano
accomodarsi
liberamente le
più
diversificate
"enclavi" di
culture
esotiche, nonché
dei più
diversificati
usi e costumi,
ciascuno dei
quali libero di
manifestarsi
senza remore o
come meglio
aggradi: dallo
spacciare droga,
all' assalire
donne nei parchi
cittadini o
addirittura
nello
strangolare e
seppellire
figlie
adolescenti
ribelli (il caso
della giovane
pakistana Saman,
barbaramente
assassinata
dalla famiglia,
"docet"). Non è
dunque questione
di razzismo. Qui
si tratto di
rispettare uno
Stato di diritto
a cui Storia,
tradizione e
scelte politiche
hanno dato un
fisionomia, con
norme e costumi,
che va accettata
e condivisa
senza eccezioni
o sotterfugi. La
partita tra
razzismo e
classismo
nell'Italia di
oggi è dunque
del tutto nelle
mani degli
immigrati che
sbarcano sulle
nostre coste.
Qualora essi si
considerino
vittime "a
priori" di
immeritate
stigmate di
inadeguatezza,
illegalità,
discriminazione
o rigetto,
l'eventuale
riscatto da
tutto ciò non
potrà che
dipendere
soltanto dagli
stessi
interessati.
Sorveglino,
isolino e
stigmatizzino
chi tra i propri
connazionali
giunga in Italia
per delinquere
con forme di
illegalità più o
meno gravi, più
o meno
impattanti o più
o meno
appariscenti.
Controllino,
come comunità
etniche, le
componenti
anomale delle
loro stesse
genti e stiano
certi che allora
non vi saranno
più giudizi
sommari,
discriminazioni
o forme di
rigetto nei
confronti di chi
è "diverso"
soltanto per il
colore della
pelle. Ed ecco
spiegato anche
quell'arcano
secondo cui,
anche il più
becero tra i
cosddetti
"razzisti"
nostrani, non
abbia difficoltà
alcuna a
cogliere, tra le
varie comunità
straniere qui
immigrate, le
lampanti
differenze che
diversificano
quelle dedite
per lo più a
spaccio,
prostituzione e
truffe "on line"
da quelle che
contribuiscono
invece, con i
loro umili e
silenziosi
lavori
domestici, al
quotidiano
benessere delle
nostre famiglie.
Roma, 5 dicembre
2022 |
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POLITICA |
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CASAMICCIOLA: PIOVE SUL BAGNATO |
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Attribuire colpe a chicchessia per le
conseguenze di un cataclisma, quando la ricerca
delle vittime è da poco terminata, è
inopportuno. Sarebbe più salutare tacere e
attendere tempi migliori, prima di imbarcarsi in
fumose discussioni su possibili responsabili da
colpire con l'implacabile scure della giustizia.
È un invito rivolto a tutti, media compresi,
perché castronerie e giudizi sommari non aiutano
la causa della verità. La frana che ha colpito
il Comune di Casamicciola Terme, sull'isola
d'Ischia, ha cause complesse la cui
individuazione non può essere affidata alla "tuttologia"
di coloro che nel volgere di alcuni mesi si sono
presentati all'opinione pubblica prima da
esperti virologi, per dire la loro sul Covid,
poi si sono trasformati in strateghi militari,
pur di pontificare sulla guerra russo-ucraina. E
oggi, con immutata sicumera, strologano da
consumati idrogeologi sulle cause della frana.
Un po' di senso del pudore, no? Neanche il tempo
di capire cosa fosse accaduto, che gli "esperti"
mediatici hanno puntato il dito contro
l'abusivismo edilizio di cui l'isola flegrea è
vittima. Ora, che il problema esista non v'è
dubbio. Stavolta, però, l'abusivismo non
c'entra. Almeno non è la causa diretta della
frana che si è generata dal crollo di un costone
del Monte Epomeo, alla quota di 700 metri, dove
case e manufatti umani non ci sono. I morti vi
sono stati perché la valanga d'acqua, massi e
fango nella sua corsa verso il basso ha travolto
delle abitazioni. La domanda è: quelle case
potevano stare lì o erano abusive? Prima di
sparare sentenze, occorrerebbe consultare gli
atti in possesso delle autorità comunali per
verificare se le licenze edilizie fossero state
concesse o meno. Bisognerebbe accertare se sulle
costruzioni pendessero istanze di condono e se
le medesime fossero ubicate nella cosiddetta
"zona rossa", cioè a più elevato rischio sismico
e idrogeologico.
Ribadiamo: erano o no in zona rossa? In effetti,
lo si scopre consultando la piantina allegata
all'ordinanza comunale numero 102 del 5 febbraio
2018 che definisce la nuova perimetrazione della
"zona rossa" del Comune di Casamicciola Terme,
rielaborata in seguito agli eventi sismici del
2017. Per non tirare a indovinare, c'è un
responsabile della procedura, che l'ordinanza
comunale individua nel capo dell'Area tecnica
del Comune di Casamicciola Terme, a cui chiedere
per avere la risposta giusta. Capirete bene che
non è irrilevante stabilire se le case sepolte
dal fango fossero a norma con i regolamenti
edilizi e se, quindi, fossero fuori dalla
famigerata zona rossa. In caso affermativo, la
critica sguaiata di queste ore avrebbe sbagliato
bersaglio. A ingarbugliare la matassa è
intervenuto l'ex premier Giuseppe Conte, che con
sorprendente vigliaccheria ha tentato di
allontanare da sé ogni responsabilità per
l'emanazione del decreto legge del 28 settembre
2018, numero 109, meglio noto come "Decreto per
la ricostruzione del ponte Morandi a Genova". Il
provvedimento prevede, al capo III, "Interventi
nei territori dei Comuni di Casamicciola Terme,
Forio, Lacco Ameno dell'Isola di Ischia
interessati dagli eventi sismici verificatisi il
giorno 21 agosto 2017". In particolare, i fari
dei media sono stati puntati sul contenuto
dell'articolo 25 del decreto, poi convertito in
legge, che reca in rubrica "Definizione delle
procedure di condono". Apriti cielo! Qualcuno
avrebbe detto: ma che c'azzecca Ischia con la
ricostruzione del ponte caduto a Genova? Nulla.
Gli opinionisti da bar dello Sport ci sono
andati a nozze: trovato il colpevole dei morti
della frana ischitana. È lui, Giuseppe Conte, il
responsabile dell'odierna tragedia, avendo
consentito, a esclusivo beneficio degli
ischitani dei Comuni di Casamicciola Terme,
Forio e Lacco Ameno, di riaprire di fatto i
termini del condono edilizio tombale del 1985.
Quale gigantesca idiozia! Per quanto del signor
Conte, capo dei Cinque Stelle, pensiamo tutto il
male possibile, questa volta non sarebbe leale
gettargli la croce addosso, anche se lui con il
pusillanime tentativo di svignarsela ha fatto di
tutto per apparire colpevole. In primo luogo,
quella norma - surrettiziamente introdotta in un
decreto d'urgenza riguardante tutt'altra vicenda
- fu un escamotage della politica per dare
risposta a un problema concreto che, se non
risolto tempestivamente, avrebbe tagliato fuori
dal pacchetto di aiuti - stanziati dal Governo
per la ricostruzione delle aree colpite dal
sisma del 2017 - la stragrande maggioranza delle
abitazioni private e delle strutture
imprenditoriali presenti nel Comune di
Casamicciola. Il provvedimento comprensivo del
contestato articolo 25 fu approvato da tutto il
Movimento Cinque Stelle, con qualche
insignificante eccezione. E non solo. Ebbe il
voto della Lega che, in sede regionale, aveva
combattuto la battaglia per l'applicazione delle
norme sul condono edilizio del 2003, non
riconosciuto in Campania dall'allora Giunta
regionale guidata da Antonio Bassolino. Sulla
stessa posizione si schierarono Forza Italia e
Fratelli d'Italia. Unica forza a opporsi fu il
Partito Democratico, tenuto a difendere la
decisione di Antonio Bassolino.
Ma l'abusivismo a Ischia si rappresenta alla
stregua di una matrioska. Esiste una singolarità
isolana che s'inserisce in una più ampia
specificità campana che, a sua volta, s'inquadra
nella generalità del fenomeno nazionale.
L'abnorme presenza di domande di condono su un
territorio delimitato, quale quello dell'isola
d'Ischia, rispecchia la volontà degli isolani di
sentirsi padroni della loro terra, anche a
dispetto delle normative che imporrebbero
vincoli stringenti all'esercizio del diritto
alla proprietà privata. Chi conosce la
psicologia dell'isolano, sa che la percezione
che gli ischitani hanno dell'istituto del
condono edilizio è l'opposto della realtà:
l'atto sanatorio non è vissuto come un'occasione
straordinaria per mettersi in regola con le
normative vigenti. Al contrario, è inteso come
l'opportunità che lo Stato concede a se stesso
di riconciliarsi con la legittima pretesa degli
ischitani di godere, pienamente, di ciò che gli
appartiene in via esclusiva per diritto di
nascita. La ragione dell'esasperata lentezza
nell'evadere le istanze di condono non va
ascritta alla burocrazia, ma alla necessità di
garantire l'equilibrio tra gli interessi degli
isolani, i doveri delle istituzioni pubbliche e
la cogenza delle norme dell'ordinamento
giuridico. Ne è prova la difficoltà nel
procedere alla ricostruzione dopo il sisma del
2017, non per la farraginosità della Pubblica
amministrazione ma per la pretesa dei
danneggiati dal terremoto di non subire alcuna
delocalizzazione e di poter ricostruire le
abitazioni distrutte esattamente dov'erano
situate prima dell'evento catastrofico,
indipendentemente dal fatto che quelle aree
fossero insicure.
Come mostrano le immagini, le case travolte non
erano baracche abusive coperte da lamiere ma
abitazioni di pregio, il cui valore di mercato è
decuplicato dalla presenza di un panorama tra i
più belli al mondo. Gli ischitani lo sanno da
sempre e per questo si oppongono con ogni mezzo
al cambiamento dello status quo, anche se ciò
dovesse comportare un rischio mortale. Un
imprenditore isolano della logistica, in auge
alcuni decenni orsono, era solito affermare che,
nascendo a Ischia, si diventava di diritto
azionista di una grande spa. Aveva ragione.
L'economia del luogo ha funzionato secondo
logiche del tutto avulse da quelle che governano
l'economia nazionale. È stato giusto consentire
che si coltivasse un sentimento di separazione
dal contesto nazionale così forte? No, e la
politica ha le sue colpe. Avere assecondato nel
tempo la natura monotematica dell'economia
isolana, totalmente vocata al comparto turistico
e al suo indotto, ha creato i presupposti perché
i fenomeni catastrofici potessero abbattersi
sulla popolazione. Il vero colpevole della frana
dei giorni scorsi è rappresentato dall'incuria
riservata alle terre alte dell'isola. La
necessità di cristallizzare, come in
un'oleografia ottocentesca, la natura selvatica
dei luoghi, per accrescere il fascino esotico
dell'isola, ha distolto le istituzioni pubbliche
dal dovere di garantire la pulizia continua del
sottobosco, la sistemazione degli alvei, la
creazione di vasche d'espansione per contenere
le acque pluviali e di canaloni per consentirne
il regolare deflusso verso il mare. La necessità
di intensificare l'urbanizzazione delle zone
costiere dell'isola ha tolto spazio ai rii e ai
ruscelli, funzionali alla decongestione della
montagna. Più grave ancora è stata la scelta di
abbandonare l'agricoltura collinare che, se
tempestivamente pianificata e sviluppata,
avrebbe offerto maggiori possibilità di cura e
di governo al territorio.
Ora, padronissimi gli ischitani di rischiare le
proprie esistenze e quelle dei loro figli per
continuare a vivere a modo loro. Ma se volessero
cambiare verso, pensando meno a cosa mettere a
reddito per fare denari e riflettendo più sul
dotarsi di una solida tranquillità esistenziale,
riprovino a fare ciò che portavano avanti i loro
avi, coltivando la terra e manutenendo i terreni
incolti. Potranno maggiormente godere di buon
vino e di buona frutta. E temere meno la furia
devastatrice delle acque alluvionali. |
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