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FALLIMENTO
SILICON VALLEY
BANK: EFFETTO
FARFALLA |
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Ci siamo presi
un gran
spavento,
inutile negarlo.
La notizia choc
- alcuni giorni
orsono - del
default della
Silicon Valley
Bank a cui è
seguita, in
Europa, la crisi
del Credit
Suisse, colosso
elvetico, ha
gettato i
risparmiatori
nel panico. La
sola idea di
rivivere una
tragedia
finanziaria come
fu quella dei
mutui subprime -
generatasi negli
Stati Uniti nel
2006 - ha
prodotto
un'ondata di
sfiducia nelle
capacità di
tenuta del
sistema bancario
globale.
Tuttavia, il
temuto contagio
non è avvenuto.
Ed è una
fortuna. Prima
il Dipartimento
del Tesoro Usa
che, in concorso
con la Federal
Reserve e la
Federal deposit
insurance
corporation (Fdic),
è intervenuto
con misure
d'emergenza a
garantire i
risparmiatori
coinvolti nel
crac della
sedicesima banca
statunitense in
ordine di
grandezza; poi,
l'intervento del
presidente Joe
Biden che si è
detto pronto ad
attivare
qualsiasi misura
necessaria pur
di proteggere il
settore bancario
statunitense.
Segno che il
rischio di
contagio per il
sistema bancario
globale, a causa
di una crisi che
è solo in parte
endogena alle
aziende
interessate, è
una possibilità
che è sul
tavolo. Non a
caso, è stato
acceso un faro
su altre aziende
di credito
statunitensi di
dimensioni
regionali,
ugualmente a
rischio
d'insolvenza. Si
tratta di: First
Republic Bank,
Western Alliance
Bancorp, PacWest
Bancorp, East
West Bancorp e
Zions
Bancorporation.
Non è poco. Come
non lo è il caso
europeo di
Credit Suisse.
Quando nei
giorni scorsi il
principale
azionista della
banca elvetica,
la Saudi
National Bank (Snb)
- partecipata in
quota
maggioritaria
dal Fondo per
gli investimenti
pubblici
dell'Arabia
Saudita (Pif) -
ha detto "no" a
un'immissione di
liquidità nelle
casse
dell'istituto,
il suo titolo è
crollato al -30
per cento, dopo
aver perso, da
marzo 2021, l'83
per cento del
suo valore. È
stato necessario
un massiccio
intervento della
Banca nazionale
svizzera,
sostanziatosi in
50 miliardi di
franchi in
prestiti a breve
e l'impegno
della stessa
banca a
riacquistare 3
miliardi di euro
del proprio
debito senior,
per riportare la
calma sui
mercati.
Con le borse che
stanno
recuperando
terreno dopo i
tonfi degli
scorsi giorni,
la tempesta
finanziaria
potrebbe
considerarsi
risolta. Ma non
è così. Resta
l'allarme per un
pericolo che è
stato evitato ma
non eliminato,
giacché non ne
sono state
rimosse le cause
originarie.
Oltre ai gravi
errori reiterati
dalle governance
delle aziende
coinvolte, tra
queste cause vi
è l'inversione
di tendenza
delle politiche
monetarie messe
in campo dalle
banche centrali
per fronteggiare
l'impennata
inflazionistica.
Il rialzo dei
tassi
d'interesse sul
costo del denaro
ha innescato il
meccanismo
perverso che ha
portato al
default della
banca
statunitense e
al rischio
concreto che
altre nel
prossimo futuro
possano subire
il medesimo
destino. Cos'è
accaduto negli
Stati Uniti? La
decisione della
Federal Reserve
(Fed) di puntare
sul rialzo dei
tassi
d'interesse per
frenare la
spinta
inflattiva ha
costretto il
sistema delle
start-up
californiane
della Silicon
Valley,
principali
clienti della
Svb, a dotarsi
di maggiore
liquidità,
togliendola alla
banca di
riferimento.
Quest'ultima,
per fare fronte
alle richieste
della clientela,
si è vista
costretta a
reperire denaro
sul mercato,
alienando in
perdita
obbligazioni e
titoli, in
particolare
quelli del
debito sovrano
statunitense i
quali, per
effetto delle
politiche
monetarie della
Fed, avevano
subito perdite
di valore.
Il crollo ha
avuto immediati
contraccolpi in
Gran Bretagna,
dove la Bank of
England ha
chiesto lo stato
di insolvenza
per la Svb Uk, e
ne ha bloccato i
pagamenti e i
depositi.
L'Europa della
zona euro,
invece, è sotto
la stretta
sorveglianza
della Banca
centrale europea
la quale, in
fatto di lotta
all'inflazione,
la pensa allo
stesso modo
dell'omologa
autorità di
vigilanza
statunitense. È
ragionevole
ipotizzare che
entrambe le
istituzioni
finanziarie, che
operano sui due
versanti
dell'Oceano
Atlantico, si
trovino ad
affrontare il
medesimo
dilemma:
scegliere tra
lotta
all'inflazione e
stabilità
finanziaria,
atteso che, come
dimostrano i
fatti di questi
giorni, le due
cose non si
tengono insieme.
La Bce ha
confermato la
linea dura nella
lotta
all'inflazione
attraverso
l'innalzamento
del tasso
d'interesse di
50 punti base.
Al contrario
degli Stati
Uniti, dove la
politica di
intervento sul
rialzo del costo
del denaro vive
una fase di
ripensamento
dopo il crollo
della Svb.
Tuttavia, se
questo è il
quadro non
possiamo mancare
di osservare che
all'insieme
manchi un nesso
causale
decisivo. Il
convitato di
pietra di questa
storia è la
guerra
russo-ucraina.
Qui le tifoserie
da stadio non
c'entrano nulla,
men che meno
c'entra il
pacifismo peloso
dei "buonisti in
servizio
permanente
effettivo", i
quali brigano
per uno stop
all'invio di
armi
all'Ucraina, non
avendo mai
smesso di
sperare nella
sconfitta di
quella stessa
civiltà
occidentale che
li ha partoriti.
Occorre una
riflessione
seria e pacata
sulle
conseguenze di
una guerra che i
Paesi Nato hanno
pensato di
combattere per
interposto
popolo ucraino,
nella granitica
certezza di
poter avere
rapidamente la
meglio sul
nemico russo,
valutato
inferiore dal
punto di vista
economico,
strategico e
geopolitico. Si
è ritenuto che
il combinato
disposto di
sanzioni
economiche e
forniture di
armamenti
all'Ucraina
avrebbe messo
all'angolo
l'autocrate
moscovita,
Vladimir Putin,
costringendolo
alla resa. Dopo
un anno di
durissimi
scontri la
situazione sul
campo è in
stallo ma con un
leggero
vantaggio per i
russi che,
seppure
lentamente,
continuano ad
avanzare nel
Donbass.
L'Ucraina è allo
stremo da tutti
i punti di vista
e adesso
comincia ad
avere problemi
di mancanza di
uomini da
mandare al
fronte. Il
preconizzato
crollo
dell'economia
russa non c'è
stato. L'evento
bellico ha
spinto i vertici
del Cremlino a
riavviare la
produzione dei
sistemi d'arma
convenzionali.
Se è vero che
l'Europa è
riuscita in
parte a
disinnescare
l'effetto sulle
proprie economie
dell'interruzione
degli
approvvigionamenti
di materie prime
energetiche dal
fornitore russo,
è altrettanto
vero che Mosca
non si è persa
d'animo e ha
girato ad altri
clienti sparsi
nel mondo lo
stock di
petrolio e gas
eccedente dopo
la risoluzione
dei contratti di
fornitura con i
Paesi europei.
L'Occidente si è
trovato a fare i
conti con
un'inflazione
non prevista,
generatasi sul
lato
dell'offerta,
che ha avuto
conseguenze
devastanti sulle
economie
nazionali.
Ora, la crisi
finanziaria che
rischia di
sistematizzarsi
è solo l'ultimo
in ordine di
tempo degli
effetti della
teoria del Caos
applicata alla
geopolitica: un
missile russo su
Bakhmut provoca
il fallimento di
una banca negli
Stati Uniti. Si
chiama "effetto
farfalla". Le
opinioni
pubbliche
occidentali
dovrebbero
spingere i
Governi a
riconsiderare la
possibilità di
aprire al
negoziato di
pace con Mosca,
mettendo in
conto che una
soluzione
comporterebbe
inevitabilmente
sacrifici
territoriali, e
non solo, per
l'Ucraina. Per
restare con i
piedi per terra,
non si potrà
andare oltre un
cessate-il-fuoco
permanente che
cristallizzi la
situazione come
oggi si
rappresenta sul
terreno. Sarebbe
una soluzione
analoga a quella
adottata per
porre fine, nel
1953, alla
guerra di Corea.
Nelle condizioni
date, l'unica
certezza resta
la guerra, pur
con tutti i
rischi che
l'accompagnano,
a meno che non
sia proprio
l'inquilino
della Casa
Bianca,
impegnato a
tutelare gli
interessi del
sistema
finanziario del
suo Paese, a
cambiare rotta
ridimensionando
drasticamente il
sostegno, oggi
incondizionato,
alla causa
ucraina. Non
sarebbe una
novità. È
accaduto in
Afghanistan,
dove gli Usa
hanno permesso
ai talebani di
riprendersi il
potere senza
averli prima
vincolati al
rispetto dei
diritti umani.
Comunque vada,
la vicenda della
crisi
finanziaria
sfiorata è un
campanello
d'allarme per i
governanti
europei. Il
prolungarsi
della guerra è
causa di
fallimento delle
economie
occidentali
quanto potrà
esserlo in
futuro del
sistema
economico-finanziario
russo. Non
possiamo
concederci il
lusso di
attendere che il
nemico imploda,
quando vi sono
segnali evidenti
di crepe nel
paradigma
occidentale.
L'auspicio è che
un sano realismo
spinga i vertici
politici dei
Paesi Nato a
cambiare postura
nelle relazioni
con Mosca.
Sperare che la
situazione non
sfugga di mano
non è
disfattismo
antipatriottico.
É puro
buonsenso. |
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NAUFRAGI E
IMMIGRATI: IL
PANE AZZIMO
DELLA DEMAGOGIA
DI PARTE |
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Il Governo
Meloni stia in
campana, la
sinistra è
tornata. Non che
questo
rappresenti un
problema serio.
Tuttavia, il
pericolo nasce
dalla capacità
manipolatrice
dell'informazione
che il Partito
Democratico ha
ricevuto in dote
dall'avo
comunista e
grazie alla
quale la
minoranza, in
Parlamento e nel
Paese, riesce a
dettare l'agenda
alla
maggioranza.
L'evidenza di
una tale
distorsione
della dialettica
democratica è
sotto gli occhi
di tutti,
proprio in
questi giorni.
Nonostante il
Governo sia
impegnato su
diversi fronti,
tutti
delicatissimi,
per aiutare la
nazione a
lasciarsi alle
spalle anni di
crisi, di cosa
parlano a ciclo
continuo i media
organici alla
sinistra,
costringendo a
farlo anche a
quei pochi
canali
d'informazione
che di sinistra
non sono? Del
naufragio di
Cutro e di altre
analoghe
sciagure. Ora,
con tutto il
rispetto per le
vittime delle
tragedie del
mare, si può
pensare di
ridurre la
questione Paese
a ciò che è
successo a Cutro?
La sinistra lo
spera. Il
centrodestra non
caschi nella
trappola. Faccia
in modo di
uscire
dall'angolo in
cui la sinistra
ha cercato di
portarlo e
riprenda il
dialogo con i
cittadini sui
temi che
maggiormente li
preoccupano.
Riguardo alle
polemiche sui
soccorsi, è
veramente
disgustoso che
le si usino
strumentalmente
come arma di
distrazione di
massa. Non solo
Cutro. Anche
l'ultima
sciagura che ha
visto la morte
di 30 migranti,
capitata a largo
delle coste
libiche, si è
trasformata in
un atto d'accusa
contro il
Governo
italiano,
tacciato di non
fare abbastanza
per salvare le
vite umane.
Adesso basta!
Basta con
l'attentare alla
dignità
nazionale. La
sinistra
s'illude se
pensa che questo
sia il modo di
recuperare
consensi. La
gente non è
stupida. La
maggioranza non
rumorosa degli
italiani ha
compreso
perfettamente
che l'Italia
c'entra fino a
un certo punto
con ciò che
accade nel
Mediterraneo
meridionale; che
non può essere
il nostro Paese
a farsi carico
di tutta la
disperazione del
mondo, come non
possono essere
gli italiani i
responsabili
morali delle
sciagure che
spezzano le vite
di coloro che
accettano la
scommessa della
migrazione
attraverso la
via della
criminalità.
Bisogna che si
prenda atto di
un'orrenda
verità:
l'emigrazione è
entrata a far
parte
dell'armamentario
che gli Stati
dispotici e le
satrapie
utilizzano per
ricattare altri
Stati. Ma non
sono solo i
"cattivi" a fare
uso dell'arma
migratoria.
Anche i
cosiddetti
"buoni" - vedi i
membri
dell'Unione
europea - in
questi ultimi
anni, si sono
comportati
malissimo
lasciando che
una questione di
dimensioni
epocali, qual è
il fenomeno
delle migrazioni
di massa, si
scaricasse
sull'Italia.
Si prenda il
caso dell'ultimo
naufragio in
ordine di tempo.
Il barcone con
47 migranti a
bordo si è
rovesciato
davanti alle
coste libiche
mentre la
Guardia costiera
italiana, che
aveva ricevuto
alcune ore prima
del naufragio la
segnalazione di
un natante in
difficoltà
nell'area Sar (Search
and Rescue)
libica non
sarebbe giunta
per tempo a
recuperare i
naufraghi. La
domanda è:
perché solo la
forza navale
italiana sarebbe
dovuta
intervenire? La
nostra Guardia
costiera ha
richiesto alla
Libia e a Malta
di effettuare
l'intervento Sar,
ma ha ricevuto
un rifiuto da
entrambi gli
Stati. Eppure,
il barcone era
poco fuori delle
acque libiche.
Sì, ma di quale
Libia parliamo,
visto che ne
esistono al
momento tre? Non
era il mare
della
Tripolitania -
la zona della
Libia più vicina
all'Italia - a
essere la scena
del naufragio ma
quello della
Cirenaica. Il
barcone, quando
si è rovesciato,
si trovava a 113
miglia a
nord-ovest di
Bengasi. Ciò
vuol dire che,
prima della
costa italiana,
vi sarebbero
state altre
opzioni più
immediate ai
fini del
salvataggio dei
naufraghi. È
sufficiente
consultare una
carta nautica
del Mediterraneo
meridionale per
rendersi conto
dell'assurdità
di prendersela
con gli
italiani, sempre
e comunque.
Escludendo la
Guardia costiera
libica che fa
capo al Governo
di Tripoli, la
forza navale
prossima al
luogo del
naufragio è
quella egiziana.
Perché l'allarme
non è arrivato
anche al Cairo?
Se l'Egitto non
piace, resta la
Grecia. L'isola
di Creta, che è
greca ed è
territorio
dell'Unione
europea, dista
da Bengasi 302
miglia nautiche,
molto meno di
quanto disti la
costa siciliana
(386 miglia).
Eppure, dell'alert
alla Grecia non
si fa menzione.
È la seconda
volta che capita
in pochi giorni.
Nella tragedia
di Cutro la
Grecia non viene
chiamata in
causa. Eppure,
dei quattro
giorni di
navigazione che
il caicco ha
compiuto dal
porto turco di
Smirne per
raggiungere la
Calabria, tre li
ha trascorsi
navigando lungo
le coste del
Peloponneso.
Perché gli
scafisti non
hanno cercato
immediato
approdo nelle
terre del mare
Egeo? Perché la
presenza in mare
della nave dei
trafficanti di
esseri umani non
è stata
segnalata alle
autorità
marittime greche
affinché
prestassero
soccorso? Forse
la Grecia gode
di una speciale
esenzione quando
si tratta di
salvare dalle
acque gli
immigrati
irregolari?
Evidentemente
sì, visto che
gli aerei
dell'agenzia
europea per il
controllo delle
frontiere
Frontex neanche
ci vanno a
sorvolare le
rotte dei
trafficanti in
quella parte del
Mediterraneo. E
c'è Malta a 368
miglia nautiche
da Bengasi, che
però non manda i
propri mezzi
navali a
effettuare
salvataggi in
mare neppure a
pagarla oro.
Siamo al
cospetto di un
bizzarro dogma
della filosofia
dell'accoglienza
secondo il quale
per i migranti
non c'è altro
luogo di approdo
che non sia
l'Italia. Come
ampiamente
dimostrato dai
governanti
francesi, i
quali si sono
sentiti
idealmente
violentati
quando sono
stati costretti
ad aprire un
loro porto una
sola volta, a
una sola, unica
nave delle Ong
che trasportava
immigrati
irregolari, non
esiste per la
comunità degli
Stati europei un
altrove
possibile da
opporre a una
sentenza che
condanna il
nostro Paese a
essere il
recettore
universale della
disperazione
dell'umanità. Si
può andare
avanti in questo
modo? I Servizi
segreti hanno
fatto sapere che
nella sola Libia
vi sono 685mila
immigrati pronti
a salpare in
direzione delle
nostre coste. A
tale massa
gigantesca vanno
aggiunti i
potenziali
300mila che
dalla Tunisia si
preparano a
mettere piede
sul suolo
italiano.
L'onda
migratoria
prevista nel
2023 avrà un
impatto
insostenibile
sul sistema
socio-economico
nazionale.
Inutile bussare
alla porta
europea per
ricevere un
aiuto concreto
perché, sulla
richiesta
italiana di
redistribuzione
degli immigrati
economici
accolti, i Paesi
partner - tutti,
nessuno escluso
- non ci
staranno mai.
Non intendono in
alcun modo
assecondare e
condividere il
"buonismo"
nostrano
dell'accoglienza
illimitata.
Piaccia o no, a
questo punto
l'unica opzione
praticabile, in
attesa che le
politiche di
medio/lungo
termine studiate
dal Governo
Meloni per la
gestione del
dossier
migrazioni
dispieghino i
loro effetti,
resta quella
dell'intercettazione
in mare, da
parte delle navi
della Marina
militare, dei
barconi, la
prestazione del
soccorso agli
immigrati e la
loro riconsegna
immediata ai
luoghi di
partenza, in
Libia e in
Tunisia. Non
esiste altra
strada, per il
Governo Meloni,
che la soluzione
drastica se non
vuole essere
preda dello
stillicidio
giornaliero di
polemiche
inscenate dalla
demagogia
propagandistica
della sinistra.
Una chiosa in
calce. Il
barcone è
naufragato
davanti alla
costa di
Bengasi,
capitale della
Cirenaica,
regione della
Libia
notoriamente
sotto il
controllo delle
truppe
mercenarie russe
della brigata
Wagner. Di
recente, da
Mosca hanno
ricordato quanto
malamente
abbiano accolto
il
riposizionamento
strategico
dell'Italia
sulla crisi
ucraina e
abbiano
ricordato
altresì come
l'arma della
migrazione sia
nel novero degli
strumenti
d'attacco di cui
la Russia
dispone per
nuocere agli
sponsor
dell'Ucraina.
Alla luce di
quanto accaduto
in acque della
Cirenaica, cosa
dobbiamo
sospettare? Che
i quasi 700mila
in arrivo dalla
Libia siano la
bomba sporca che
il Cremlino ha
in serbo per
l'Italia? |
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ELLY E ROMANO:
IL BRACCIO E LA
MENTE |
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La neoeletta
segretaria del
Partito
Democratico
Elena Ethel
Schlein, detta
Elly, per
l'opinione
pubblica resta
una sorta di
oggetto
misterioso.
Sbucando fuori
dal nulla è
riuscita a
mandare al
tappeto un peso
massimo della
stazza politica
di Stefano
Bonaccini, lo
sconfitto alle
primarie Pd che
è tornato con le
pive nel sacco
al suo mestiere
di presidente
della Regione
Emilia-Romagna.
È come ha detto
lei: gli
iscritti al
partito non
l'hanno vista
arrivare. Elly
Schlein è la
classica
outsider, cioè
la persona
giusta che
riesce a
trovarsi nel
luogo giusto al
momento giusto
per modificare
il corso di una
storia
collettiva.
Tuttavia, la
favola dell'eroe
spuntato dal
nulla che
interviene a
salvare una
porzione di
umanità morente
(politicamente
parlando)
guidandolo
attraverso una
palingenesi è
frutto di una
visione mitica
della realtà che
non sposa la
cruda semplicità
di una storia
personale
costruita
all'interno di
un gruppo
familiare e di
un contesto
sociale in
confidenza con
il potere.
Benché giovane,
Elly è il
cavallo di razza
del progressismo
radicale sul
quale puntare
per la vittoria.
Famiglia di
buone origini -
il nonno
materno,
Agostino
Viviani, è stato
negli anni
Settanta
senatore della
Repubblica in
quota al Partito
Socialista
Italiano -
ottimi studi
liceali e
universitari, un
gran fiuto per
la politica. Una
volta si sarebbe
detto: "La
ragazza promette
bene". Doti
innate e
capacità
acquisite nel
tempo che
tuttavia non
fanno di lei una
Giovanna d'Arco
e neppure una
Rosa Luxemburg.
Elly è un'ottima
frontwoman, sa
reggere la scena
nel teatrino
della politica
politicante e la
sua prossemica è
accattivante. Ma
non è lei
l'autrice del
suo racconto
politico. Il "Ghostwriter",
la mente che è
alle sue spalle,
lo sceneggiatore
che ha scritto
il copione della
sua ascesa alla
guida del primo
partito della
sinistra è un
consumato
protagonista del
potere, da
sempre
esercitato con
assoluta
discrezione su
scala nazionale
e
internazionale.
Parliamo del
"professore"
Romano Prodi,
l'uomo
dell'"Eterno
ritorno
dell'uguale",
per dirla alla
maniera di
Friedrich
Nietzsche. C'è
lui dietro la
vittoria della
Schlein. I due
si conoscono per
frequentazioni
famigliari. Lei,
poco più che
ragazzina, in
risposta al
siluramento del
professore
bolognese nella
corsa per la
presidenza della
Repubblica nel
2013, per mano
dei famosi 101
franchi tiratori
del Pd che nel
segreto
dell'urna gli
negarono il
sostegno
decisivo,
s'inventò quella
reazione di
fresca innocenza
giovanile
chiamata #Occupy
Pd. Con la sua
creatura si mise
a occupare le
sedi del partito
in segno di
protesta per
l'affossamento
della
candidatura di
Prodi al
Quirinale.
Sembrava una
sparata
movimentista,
invece era un
seme piantato
nel terreno che
prima o poi
avrebbe dato
frutti. Ed
eccola che,
passata
attraverso un
peregrinare tra
sigle di partiti
e movimenti non
senza
capitalizzare in
scranni al
Parlamento
europeo e nella
Giunta regionale
dell'Emilia-Romagna
il successo
conseguito
presso
l'opinione
pubblica, si è
ritrovata di
punto in bianco
al vertice di un
partito in crisi
al quale,
peraltro, fino a
qualche
settimana prima
del voto dei
circoli locali
non era
iscritta.
Ora il disegno
prodiano di
riprendersi il
Partito
Democratico ha
una sua
protagonista. Se
inizialmente
quella della
mano di Prodi
dietro la
vittoria della
Schlein poteva
essere
un'illazione da
gossip della
politica, le
recenti uscite
pubbliche del
professore, che
improvvisamente
ha ritrovato una
verve
presenzialista
sui media,
spazza via ogni
possibile dubbio
sul suo
coinvolgimento
nel successo del
nuovo corso
giovanilista del
Pd. Con
un'intervista a
Repubblica, alla
quale ne è
seguita un'altra
concessa a Lucia
Annunziata per
la trasmissione
televisiva
domenicale
"Mezz'ora in
più", Romano
Prodi è sceso in
campo a
tranquillizzare
gli ambienti
industriali e
finanziari,
tradizionalmente
accondiscendenti
con la vocazione
governista della
sinistra
ex-comunista,
spaventati dal
massimalismo
infantile della
giovane leader
e, nel contempo,
a dettare la
linea del nuovo
corso Pd. Cos'ha
detto il
professore? Che
il voto popolare
alle primarie ha
rianimato un
partito
catatonico; che
la
partecipazione
della Schlein
alla
manifestazione
antifascista di
Firenze, lo
scorso sabato,
accanto al
leader Cinque
Stelle, Giuseppe
Conte, e al capo
della Cgil,
Maurizio Landini,
è stata
un'esplorazione
per possibili
scenari futuri;
che Elly deve
concentrarsi sul
definire un
programma il
quale ridisegni
l'identità del
partito e solo
dopo
preoccuparsi
delle alleanze.
E sull'approccio
movimentista
della nuova
segretaria?
Prodi ne è
entusiasta. Per
lui un po' di
radicalismo
nell'offerta
politica è
necessario,
perché su alcuni
temi bisogna
essere radicali
per poter
parlare alla
società.
Il Pd
dell'ultimo
decennio,
governista a
oltranza, aveva
perduto ogni
spinta
aggregante per
adattarsi a
essere una forza
politica
schierata a
difesa degli
interessi dei
poteri forti.
Prodi cita il
caso di Enrico
Letta, non
difeso da
nessuno dei suoi
quando provò a
porre la
questione
dell'introduzione
della
patrimoniale per
aiutare i
giovani
inoccupati.
Tutto lascia
prevedere che
nella cabina di
comando del Pd
targato Elly
Schlein, insieme
a una varia
umanità di
improbabili
figure
arcobaleno, il
professore avrà
il ruolo di
ufficiale di
rotta con
qualche peso
nella scelta
dell'equipaggio.
Lo si è visto
nel modo con cui
ha schivato
l'insidiosa
domanda sul
coinvolgimento
di Bonaccini
nella gestione
unitaria del
partito. Prodi
ha risposto
secco che non
sarà necessario
che i due (Elly
e Stefano)
lavorino
insieme, ma è
sufficiente che
vi sia uno
spirito di
collaborazione.
Riguardo alla
politica estera
del Pd qualcosa
di nuovo la si
vedrà molto
presto. La
posizione del
partito sulla
guerra ucraina
subirà una
modifica
sostanziale,
sebbene in
apparenza
impercettibile.
La Schlein sarà
più "aperturista"
rispetto al suo
predecessore
verso la
soluzione
diplomatica del
conflitto. Da
oggi Mosca può
contare sul
ritorno di un
altro amico nel
dibattito
politico
italiano. Già,
perché ciò che
molti ignorano o
fingono
d'ignorare è il
fatto che
Vladimir Putin
non avesse solo
Silvio
Berlusconi come
grande amico
italiano.
L'altro,
altrettanto
stimato e amato
al Cremlino, è
il professor
Prodi. La
differenza con
il leone di
Arcore è che
Prodi, oltre a
essere in
sintonia con
Mosca, è grande
sostenitore del
ruolo della Cina
quale player
geopolitico
globale. Non è
un caso che, nel
corso
dell'intervista
televisiva,
abbia insistito
nel ritenere che
la chiave di
soluzione del
conflitto che
insanguina l'Est
Europa sia nelle
mani di
statunitensi e
cinesi e,
contestualmente,
abbia messo in
guardia dal
pensare che
l'atlantismo
possa essere
solo armi e
niente
diplomazia.
Aspettiamoci
allora che nelle
prossime uscite
pubbliche di
Elly
sull'argomento
guerra in
Ucraina si
sentirà citare
la parola
Pechino molto
più di quanto
non la sia udita
con Enrico Letta
regnante. Sarà
un colpo basso
per il Governo
Meloni. Il
riposizionamento
sulla politica
internazionale
del Pd finirà
per costituire
un grosso
problema per il
nostro premier,
che si troverà a
interloquire con
un Parlamento
nel quale la
maggioranza dei
partiti, che
sarà
trasversale,
sebbene
continuerà nelle
parole a dirsi
schierata con
l'Ucraina, nella
sostanza
coltiverà l'idea
che una pace per
la quale Kiev
dovesse pagare
un qualche
prezzo anche
territoriale
sarebbe
possibile. Di
certo c'è che,
d'ora in avanti,
non dovremo
limitarci a
valutare
l'impatto sulla
politica
italiana della
variante
movimentista e
radicale
rappresentata da
Elly, ma dovremo
considerare il
valore aggiunto
che reca alla
sinistra il
"fattore P".
Dove "P" sta per
Prodi.
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POLITICA |
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CINQUE STELLE E
COVID: EFFETTI
INDESIDERATI |
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Mettetevi
comodi.
Procuratevi un
secchiello colmo
di popcorn - a
chi non
piacciono i
popcorn - e
godetevi lo
spettacolo. Sta
per andare in
scena la pièce
tragicomica dei
Cinque Stelle
che perdono
quella faccia
che non hanno
mai avuto.
L'occasione per
l'ennesima
messinscena
dell'Opera buffa
pentastellata si
è presentata con
l'avviso di
chiusura delle
indagini da
parte della
Procura della
Repubblica di
Bergamo che
faceva luce
sull'ipotesi di
reato di
epidemia colposa
e omicidio
colposo per la
diffusione
anomala del
Covid in Val
Seriana.
All'esito
dell'inchiesta,
durata tre anni,
sono stati
emessi 19 avvisi
di garanzia che
hanno raggiunto
il capo del
Governo e il
ministro della
Salute in carica
all'epoca dei
fatti
contestati, il
presidente della
Regione
Lombardia,
Attilio Fontana,
e l'allora
assessore
regionale
lombardo alla
Sanità, Giulio
Gallera.
Risultano
indagati anche i
vertici del
Comitato
tecnico-scientifico
che ha
coadiuvato il
lavoro del
ministro della
Salute, Roberto
Speranza, nel
corso della
crisi pandemica
nonché l'ex capo
del Dipartimento
della Protezione
civile, Angelo
Borrelli, e l'ex
direttore
vicario
dell'Organizzazione
mondiale della
Sanità (Oms),
Ranieri Guerra.
Ça va sans dire,
il presidente
del Consiglio
che ha gestito
la prima fase
della pandemia è
stato Giuseppe
Conte. Ed è di
lui che
desideriamo
occuparci,
tralasciando per
il momento ogni
considerazione
sulla fondatezza
di un
procedimento
penale costruito
post festum. Vi
domanderete
perché solo
Giuseppe Conte.
Semplicemente
perché lui è
grillino, anzi è
il capo dei
grillini. Cioè è
il leader di
quella banda
degli onesti
che, con il
proprio
giustizialismo
d'accatto, ha
ammorbato l'aria
già poco salubre
della cosiddetta
"Terza
Repubblica". Le
regole del
Codice etico del
Movimento - a
proposito, è
ancora in
vigore? - non
sanciscono il
principio-cardine
della
presunzione di
gravità nella
valutazione di
eventuali reati
contestati
dall'Autorità
giudiziaria a un
indagato
appartenente al
Cinque Stelle?
L'iscritto
Giuseppe Conte,
ricevuta
l'informazione
di garanzia,
avrebbe dovuto
procedere
all'autosospensione
da tutte le
cariche
rivestite nel
partito. Non
risulta l'abbia
fatto. Risulta
invece che
nessuno tra i
grillini glielo
abbia chiesto.
Ma come? Non
erano quelli che
pretendevano le
dimissioni di
chiunque altro
esponente
pubblico venisse
solo sfiorato da
un'indagine
giudiziaria? Non
erano quelli che
onestà-onestà
era il grido di
battaglia per
l'assalto al
cielo del potere
inquinato dal
malaffare? E il
garante del
Movimento,
"l'elevato", il
comico censore
dei costumi
altrui, Beppe
Grillo, cosa
pensa?
Per i
pentastellati
l'avvocato di
Volturara Appula
non si tocca,
forse perché
nella loro
bizzarra
concezione del
Diritto, che
provocherebbe
un'eccitazione
orgasmica a un
gigante della
Teoria del
Diritto stesso
quale Hans
Kelsen (se fosse
in vita), le
regole sono
fatte solo per
chi non si sa
regolare. E
loro, i grillini,
si sanno
regolare. Sono
uomini e donne
di mondo che non
necessitano di
codici
comportamentali
ai quali
attenersi.
Perciò, si
accusino pure
gli altri delle
peggiori
nefandezze,
mentre il loro
leader è
talmente candido
e specchiato da
dover essere
giudicato
innocente a
prescindere,
come direbbe
Totò.
Tuttavia, la
vicenda non può
essere liquidata
facilmente e,
soprattutto,
senza clamori
mediatici. Dopo
l'avviso di
chiusura
indagine, per
gli inquirenti,
il passo
successivo è la
richiesta al
Giudice del
rinvio a
giudizio degli
indagati. Ne
vedremo delle
belle. La
posizione di
Giuseppe Conte,
insieme a quella
di Roberto
Speranza, verrà
stralciata e
inviata per
competenza al
Collegio
chiamato, a
norma della
Legge
costituzionale
del 16 gennaio
1989, numero 1,
a pronunciarsi
sui presunti
reati commessi
dal presidente
del Consiglio e
dai ministri
nell'esercizio
delle loro
funzioni. Ma il
rinvio alla
giurisdizione
del "tribunale
dei ministri"
non è
automatico.
Occorre che la
Camera
legislativa di
appartenenza
dell'indagato si
pronunci sulla
concessione
dell'autorizzazione
a procedere.
Come si
comporterà
Giuseppe Conte
nel passaggio
parlamentare?
Come si
posizioneranno i
pentastellati?
Cosa faranno gli
altri partiti?
Già, perché
dallo scorso 25
settembre la
musica è
cambiata. La
maggioranza in
Parlamento è di
centrodestra.
Quindi, le sorti
processuali di
Conte e di
Speranza sono
nelle mani dei
loro avversari.
L'attuale
coalizione che
governa il Paese
è in grado di
mandarli a
processo? Lo
farà? Non
dimentichiamo
che nel
centrodestra, in
particolare in
Forza Italia,
vige
l'inderogabilità
del principio
della non
interferenza del
potere
giudiziario
nelle dinamiche
della politica.
In condizioni
ordinarie,
avremmo
suggerito a
Conte e a
Speranza di
stare tranquilli
perché non gli
sarebbe accaduto
nulla. Oggi è
un'altra storia.
C'è stata di
mezzo l'ignobile
vicenda della
concessione
dell'autorizzazione
a procedere a
carico
dell'allora
ministro
dell'Interno,
Matteo Salvini,
per il reato
gravissimo di
sequestro di
persona commesso
in danno degli
immigrati
presenti a bordo
di navi che ne
avevano
effettuato il
recupero in
mare. In quel
frangente, i
Cinque Stelle
erano al potere
con il
centrosinistra e
volevano farla
pagare all'ex
alleato
leghista,
colpevole di
aver affondato
il primo Governo
Conte. E lo
fecero. Sono
passati alla
storia i
sorrisetti
compiaciuti del
premier Giuseppe
Conte e
dell'allora
ministro degli
Esteri, il
grillino Luigi
Di Maio,
all'esisto delle
votazioni in
Senato che
consegnavano
Salvini alla
Giustizia
ordinaria. È
lecito
domandarsi: cosa
farà la Lega?
Restituirà la
pugnalata
ricevuta e
chiederà agli
alleati di fare
altrettanto?
Di là dalle
umane vendette,
esiste un
problema
sostanziale che
il centrodestra
non può ignorare
ai fini della
valutazione sul
comportamento da
assumere in sede
di votazione. Se
non dovesse
concederla,
essendo
coinvolti nel
procedimento
penale anche due
esponenti
politici del
centrodestra -
il presidente
della regione
Lombardia,
Attilio Fontana,
e l'ex assessore
regionale Giulio
Gallera - che
non godono delle
medesime
garanzie
costituzionali
di cui
beneficiano i
due ex membri
del Governo, si
potrebbe
determinare la
paradossale
condizione di un
processo
delicatissimo,
che ruota sulle
decisioni
assunte dai
vertici
governativi per
fronteggiare il
dilagare
dell'epidemia,
portato avanti
solo a carico di
una parte
politica non al
Governo
all'epoca dei
fatti mentre
l'altra, quella
della sinistra
dei Cinque
Stelle e del
Partito
Democratico a
cui oggi è
collegato
Speranza, non
verrebbe
toccata. È
ipotizzabile
che, annusata
l'aria, Giuseppe
Conte e Roberto
Speranza
giochino
d'anticipo
fingendo il beau
geste di essere
loro a chiedere
di essere
mandati a
processo e non
di attendere il
voto sfavorevole
dell'Aula.
Indipendentemente
da ciò che
vorranno fare i
due, resta la
domanda su quale
sarà
l'atteggiamento
in Aula dei
Cinque Stelle.
Comunque vada,
sono in un
cul-de-sac. Se
voteranno contro
l'autorizzazione
a procedere
renderanno
manifesto, pur
di favorire il
loro leader, il
tradimento delle
regole che essi
stessi si sono
dati. Se
voteranno a
favore della
richiesta dei
giudici, avranno
salvato la
faccia davanti
all'elettorato
che li giudica,
ma saranno
precipitati in
una
contraddizione
che ugualmente
li discredita.
Come pensare di
tenersi un solo
minuto di più un
leader contro
cui essi stessi
hanno votato
un'autorizzazione
a procedere? Non
sarà meno
scomoda la
posizione del
Pd. Sotto la
segreteria del
rancoroso Enrico
Letta un voto
favorevole
all'autorizzazione
a procedere
sarebbe stato
scontato.
Oggi c'è al
timone del
partito Elly
Schlein, che
punta a ricucire
il rapporto con
i Cinque Stelle.
Come farlo se i
"dem" non
mostrano
solidarietà
verso il capo
pentastellato?
C'è poi la
posizione di
Roberto
Speranza. Fino a
ieri l'ex
ministro della
Salute
capeggiava una
formazione
politica minore
ma formalmente
autonoma, benché
ancillare al
Partito
Democratico.
Però, proprio in
questi giorni
Speranza ha
annunciato
l'intenzione di
fare ritorno
alla casa-madre.
Che fanno i "dem",
lo "fottono"
ancor prima di
accoglierlo?
Probabilmente,
l'inchiesta di
Bergamo, come
molte altre
dello stesso
genere, finirà
in una bolla di
sapone. I
parenti delle
vittime si
dovranno
accontentare, a
titolo
riparatorio, di
alcuni anni di
gogna mediatica
che verrà
somministrata
agli imputati.
Andrà peggio ai
Cinque Stelle i
quali, essendo
cresciuti
elettoralmente
in una bolla di
sapone, proprio
come una bolla
di sapone si
dissolveranno
nel nulla.
Nessuna
meraviglia. Non
è forse scritto
nella Bibbia:
cenere alla
cenere, polvere
alla polvere? |
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POLITICA |
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QUANTO SEI BELLA, EUROPA |
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INCIPIT
"Solo et pensoso i più deserti campi vo
mesurando a passi tardi e lenti, et gli occhi
porto per fuggire intenti ove vestigio human
l'arena stampi". (Francesco Petrarca)
"Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio
oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo
dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un
mare nero, riconosco me stesso, una figurina
minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è
il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite
del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la
mia battaglia". (Ernst Jünger)
"Quando mi veniva voglia di capire qualcuno o me
stesso, prendevo in esame non le azioni, nelle
quali tutto è convenzione, bensì i desideri.
Dimmi cosa vuoi e ti dirò chi sei". (Anton
Pavlovic Cechov)
"Mamma, perché hai scelto Pompeo come secondo
nome? Lo sto studiando ora e non è che mi
piaccia molto". "Sapevo che non ti sarebbe
piaciuto, ma non ti dirò perché ti ho chiamato
come lui. Dovrai scoprirlo da solo". "E come?"
"Vi sono solo tre modi: studiare bene la storia;
non fidarti di ciò che studi; impegnarti a
scoprire dove si celi l'imbroglio. Se vi
riuscirai, vorrà dire che avrai capito il senso
della vita. E sarai un uomo migliore". "E se non
vi riuscirò?" "Poco male, sarai come la
maggioranza del genere umano". (Giuseppina
Federico, la Maestra, mia Madre, 1966)
"Sei nato troppo tardi rispetto al passato e
troppo presto rispetto al futuro, ma per quelli
come te questa frase sarebbe valida sia nel
passato sia nel futuro, quindi non crucciarti e
cerca solo di imparare a convivere col presente,
senza farti male". (Papà Lorenzo, l'uomo che
sapeva solo amare, 1974).
"Se un giorno dovessi renderti conto che ti
occorrono più di cinque secondi per scegliere le
prime parole di un articolo, non scriverlo
quell'articolo". (Piero Buscaroli, 1975)
"La più consistente scoperta che ho fatto dopo
aver compiuto sessantacinque anni è che non
posso più perdere tempo a fare cose che non mi
va di fare". (Jep Gambardella, 2013; Lino
lavorgna, 2020).
Ille est Pasquale, qui difficilius ab
honestate quam sol a cursu suo averti potest.
(Michele Falcone, amico del cuore, 2015).
*****
Caro direttore, caro amico Angelo,
son passati cinquantuno anni da quando, con il
cuore che batteva forte, ricevetti da Nino
Tripodi la nomina a corrispondente da Caserta
del "Secolo d'Italia". Da oltre mezzo secolo,
quindi, su vari organi di stampa, non faccio
altro che parlare dei mali del mondo e di ciò
che servirebbe per curarli. Non ho mai pensato
che i miei scritti potessero influire in qualche
modo sul corso degli eventi, anche perché ho
sempre relegato l'impegno giornalistico in una
dimensione collaterale a preminenti impegni
professionali. Nondimeno mi è sempre piaciuto
esporre il mio pensiero, tirare sberle a fil di
penna ai lestofanti, sbeffeggiare i mestatori,
suggerire ciò che ritenevo potesse costituire un
correttivo a qualsivoglia bruttura, in buona o
cattiva fede commessa. Da otto anni, non ho mai
mancato, in questo magazine, di perpetuare le
consolidate metodologie analitiche, facendo
talvolta anche riferimento agli scritti di un
passato che sembra remoto, e di fatto lo è,
anche se reso attualissimo dal ciclico ripetersi
delle distonie epocali e dalla mancata
attenzione a chi, con largo anticipo rispetto ai
tempi attuali, aveva previsto la deriva
planetaria verso gigantesche forme di
disfacimento e disperatamente cercava di farsi
ascoltare. Io ero e sono ancora tra costoro, ma
ciò che vedo ora è troppo nauseabondo e pesante
da digerire. Soprattutto è pesante da
descrivere, come meglio si percepirà più avanti,
e pertanto ho deciso di cambiare registro
narrativo.
Ho vissuto e continuo a vivere all'insegna di
valori rigorosi, per i quali ho pagato, con
piena consapevolezza, un prezzo altissimo. Pur
volendo, del resto, non sarebbe stato possibile
altrimenti, per manifesta incapacità a derogare
da quelle regole insite nel Dna ed esaltate dal
continuo esempio di Genitori straordinari, più
unici che rari. Va bene così, quindi, mentre
vago tra i ricordi, indelebili, perché carta
canta, assaporando il magnifico profumo di una
libertà assoluta e totale, che mi ha consentito
di camminare sempre a testa alta e di farla
abbassare ai servi intrisi di squallore
esistenziale, anche quando proprio grazie ad
esso sono stati ritenuti utili al potere,
traendone grande beneficio. Una libertà che
senz'altro ha limitato i "doni materiali", ma mi
ha consentito di ricevere quello più bello che
un uomo - un vero uomo - potesse desiderare,
racchiuso in quella stupenda frase presente
nell'incipit, pronunciata da una delle poche
persone che sono state capaci di amarmi senza
riserve e con piena sincerità d'animo. Oggi
Michele Falcone cavalca le verdi praterie,
essendosi dovuto arrendere a quel terribile
virus che ha flagellato l'umanità per circa tre
anni, ma me lo trovo in ogni attimo al mio
fianco, grazie proprio alla frase scritta con
caratteri cubitali nel poster affisso alla
parete, contenente un termine sublime il cui
significato va ben oltre quello scontato che
subito salta alla mente (per quella onestà non
sarebbe stato necessario scomodare Eutropio,
essendo sufficiente la storia personale e
familiare) e sconfina in quei campi tortuosi che
vanno arati con meticolosa cura, per discernere
il grano dal loglio.
(Di seguito il link al mio ricordo:
www.galvanor.wordpress.com/2021/02/17/michele-falcone-il-primato-della-cultura-come-bene-supremo/)
Ho conosciuto uomini straordinari e ho
combattuto contro uomini potenti e spietati,
alternando la gioia dei momenti esaltanti alle
sfiancanti dure battaglie. Sono state belle le
vittorie e dolorose le sconfitte, ma non mi
hanno mai appagato le prime né fiaccato le
seconde. Oggi, però, trovo indignitoso tenere la
mia Excalibur sguainata contro le mezze cartucce
che si sono impossessate di questa meravigliosa
Terra che si chiama Europa. Assisto a un "gioco"
tra bande nelle quali ciascuno recita la sua
parte, facendo girare come trottole chiunque
fosse estraneo al gioco. Non se ne parla nemmeno
di diventare parte del gioco; tanto meno mi si
addice il ruolo di trottola, che mi
obbligherebbe oggi a parlare bene di Tizio e
male di Caio e domani di fare l'esatto contrario
perché nell'infame gioco delle recite a soggetto
ciascuno si trasforma nel famoso orologio rotto
che due volte al giorno segna l'ora esatta. Un
gioco stancante e soprattutto inutile. Lo lascio
ad altri, pertanto, dando vita a un nuovo ciclo
narrativo. Invece di privilegiare, con le
continue denunce, il concetto banale insito nel
pur sempre valido proverbio "non è tutto oro
quello che luccica", voglio dare corpo a quello
esattamente opposto, di ben più alto valore
simbolico, coniato da Tolkien e messo sulle
labbra di Gandalf, che lo dedicò ad Aragorn:
"Non tutto quel che è oro brilla". C'è tanto di
buono, in questo meraviglioso Continente, che
non brilla perché per troppo tempo si è lasciato
che fossero le patacche a luccicare. Ed è
proprio ai "buoni" che voglio dedicarmi,
narrando le loro storie, affinché tutti possano
capire la differenza tra oro vero e oro laccato.
E magari regolarsi di conseguenza. Per me è
questo il modo di tornare a scrivere con la
gioia nel cuore, senza stressarmi. Magari
riuscirò a far percepire anche la "vera"
differenza tra Pompeo e Cesare (senza
spiegazioni esplicite, che diventerebbero
confutabili), che grazie all'incitamento di mia
Madre sono riuscito a cogliere, e soprattutto la
sostanziale differenza tra i Cesare e i Pompeo
del nostro tempo, da tanti percepiti in modo
distonico rispetto alla loro vera essenza,
contribuendo in tal modo a far lievitare quel
grande Caos nel quale sguazzano, divertendosi un
mondo, i burattinai di turno.
Con l'affetto e la stima di sempre, |
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POLITICA |
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IL RIGORE DI GIORGIA |
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Assistita da un'indubbia capacità personale ed
anche da una certa dose di fortuna (sempre
necessaria: ricordate Napoleone ed i due
generali uno bravo ed uno fortunato …. etc.,
etc.?), la nostra Giorgia nazionale macina
successi uno dietro l'altro sia diretti che
indiretti. Chiuso il 2022 con il trionfale
approdo a Palazzo Chigi (tutto merito diretto),
apre il 2023 con un analogo successo (ma questa
volta con merito indiretto): la procurata
elezione della Schlein alla segretaria del PD.
Con buona pace della sempre appropriate metafore
calcistiche, la leader di Fratelli d'Italia
ottiene infatti il primo gol su azione da
centrocampo con elaborata manovra filtrante,
mente la seconda rete è invece frutto di un
calcio di rigore, da ella stessa comunque
procurato. In termini di risultato, non c'è
differenza: le partite, come si sa, si vincono
con i gol, non importa se da azione o da tiro
piazzato. Per restare in metafora, la maldestra,
ed in parte disperata uscita (con l'elezione di
un anomalo, nuovo Segretario) del "portiere" PD
sugli stinchi di una lanciatissima Giorgia ha
posto la premessa a che l'arbitro della Storia
fischi il fallo ed indichi il dischetto dagli 11
metri.
Il principio esistenziale lasciatomi a perenne
monito dalla buona anima di mia madre recita
infatti che nella vita bisognerebbe sempre
"agire e mai reagire". Nel primo caso il gioco
resta nelle proprie mani, mentre nel secondo
esso è del tutto in mano altrui. Il confronto
tra Meloni e Schlein ci riporta infatti alla
perenne dialettica umana tra ragione e
sentimento, tra (Platone docet) la parte
"irascibile" e la parte "concupiscibile" degli
esseri umani, naturalmente al netto di qualunque
differenziazione di tipo sessuale. Quando
Giorgia parla è più che evidente - "rara avis" -
che il suo cervello è connesso con la realtà,
che le sue considerazioni da "leader" (e ciò
vale anche per quando stava all'opposizione)
seguono sempre il percorso mentale dato dalla
successione di "fatti - elaborazione - sbocchi"
che, condivisibile o meno che esso sia, non
difettano mai di mancanza di lineare
consequenzialità. Si percepisce infatti come in
qualche remoto angolo della sua bionda testolina
ci sia una misteriosa, fertile fonte di concetti
concreti che fluiscono in una tal maniera che
non può non rivelarsi l'esistenza di una
naturale coerenza personale, potremmo dire,
quasi genetica. Quel che Giorgia dice, piaccia o
non piaccia, è sempre ben rapportabile con il
suo modo di essere. Cosa questa che - attenzione
lo so bene - in politica potrebbe talvolta
essere disatteso, ma mai del tutto pretermesso:
il supposto "capo" si trasformerebbe allora in
un "seguace" , il presunto "cavallo" in
"carretto", il politico scivolerebbe nel becero
politicante. La storia italiana dal secondo
dopoguerra tracima, ahimè, di squallidi esempi
in materia che lasciano l'amaro in bocca al solo
pensarci.
Onorare l'"arte del possibile" non deve infatti
significare lo sbracarsi del tutto a livello
concettuale, l'ambito della manovra politica
può, e talvolta deve anche, essere ampia, ma
senza raggiungere mai l'estremo verdiano del
"questo o quello per me pari sono!". Severa
guardiana di tale ineludibile linearità
concettuale / espositiva è appunto la coerenza,
quella di fondo soprattutto. In Giorgia mente e
cuore, cuore e mente, non sono distonici tra
loro, ma si rapportano bene l'uno con l'altra e
ciò traspare da lei in modo evidente.
Non conosco Ely Schlein, anzi, prima che si
candidasse a Segretario del PD, ne ignoravo
persino l'esistenza. Di punto in bianco mi entra
in casa, via TV, con due unici biglietti di
presentazione, una biografia personale ed un
vagheggiato programma politico, nient'altro. La
tavola sinottica che rapporta biografia ad idee
lascia, di primo acchito, alquanto perplessi.
Un'appartenenza socio- economica all'alta
borghesia internazionale si confronta, al
contempo, con la difesa a spada tratta di
poveri, diseredati, diversi ed emarginati. Mah
…, fin qui, e dopo tutto, non ci sono ancora
grandi sorprese: su di Ely aleggia, una volta di
più, lo scontato sentore di progressismo
capalbiano, molto banalmente marinato in
sinistrorsa salsa di ZTL. Annodare il filo di
una qualche coerenza (appunto, coerenza) tra
tali due fattispecie del nuovo capo del PD non è
certamente automatico, ma si sa: l'evoluzione,
la mente, l'educazione, la cultura possono ben
svilupparsi in modo tale da sembrare distoniche
con le chiare radici personali di appartenenza /
partenza. E ciò, per inciso, potrebbe valere in
teoria anche per Giorgia Meloni. Ella infatti,
seppur di origine piccolo-borghese e con
infanzia sfortunata, si sviluppa in modo
altrettanto esponenziale, ma verso un
inaspettato orizzonte di "conservatorismo".
Anche in Giorgia la tendenza evolutiva potrebbe
dunque apparire in apparente contrasto con la
teorica tendenza, in una persona con le sue
origini, verso teorici "cambiamenti"
progressisti sia di natura individuale che
socio-economica. Ma non è affatto così. Con una
certa simmetria degli opposti si potrebbe
perfino riassumere, con estrema sintesi, dicendo
che Giorgia, di origine "proletaria", si batte
per la conservatrice difesa di "di ciò che E',
di coloro che HANNO", mentre Ely, nata "alto
borghese" , si erge a paladina di "di ciò che
NON E', di coloro che NON HANNO". Direte voi:
"se la vita, dopotutto, è in gran parte cultura
ed educazione, perche mai i due percorsi, seppur
contrapposti tra loro, non potrebbero entrambi
portare comunque a risultati di comparabile
positività?". La risposta è invece: NO, non è
possibile! E ciò in quanto i campi di azione di
Ely e di Giorgia sono del tutto differenti e
sostanzialmente incompatibili. Conservazione e
Progresso sono in assoluto prodotti di due
divinità diametralmente opposte: figlia della
mente, la "conservazione", figlio del cuore il
"progressismo". La prima si nutre di
razionalità, il secondo di emozione. Non per
nulla, ai tempi della mia lontana gioventù
circolava il detto secondo cui: "se a vent'anni
non sei socialista, significa che non hai cuore,
ma se a cinquanta sei ancora socialista vuol
dire che non hai cervello". Inoltre ciò che è
razionale promana dalla testa, sorge dall'alto,
è svincolato dalla naturale radice di nascita di
colui / colei che elabora il pensiero; è
un'azione "artificiale" che può ben nascere da
fonte misteriosa ed incomprensibile ed
alimentarsi a lungo di una propria linfa vitale
svincolata in buona parte dal proprio, concreto
"vissuto". Questo, invece, è impossibile per
l'emozione.
Essa è infatti fenomeno istintivo, "naturale"
che sgorga dalla propria carne e dal proprio
sangue, che non può mai by-passare, eludere,
svincolarsi da un sentire profondo, quasi
viscerale, aggrappato alla radice profonda del
proprio più intimo essere. Se non se ne sono
succhiati gli ineludibili presupposti con il
latte materno è difficile che, attraverso una
buona cultura e/o una raffinata educazione, si
possa fornire al progressismo sociale un
contributo di autentica v.i.t.a.l.i.t.à. Ci si
potrà anche spingere fino a limiti teoricamente
inimmaginabili, ma, alla fine, lo iato tra ciò
che si è e ciò che si afferma non potrà non
venire a galla in modo evidente e drammatico. La
"ragione" è instancabile, inesauribile ed
autoalimentante, l'"emozione", al contrario,
dopo un certo tempo si stanca, cede, si
esaurisce ed appunto si spegne rimanendo come un
sacco vuoto, uno zombi senza vita. Infatti,
volontà, cultura, ragionamento e mente possono
ben gestire, ed anche a lungo, la Conservazione
(Thatcher docet); la passione alimentata da una
cultura, l'emozione ed il cuore non possono
invece gestire, se non che per una breve
fiammata, il Progresso (senza auto-involversi,
poi, in una nuova sorta di "conservazione").
E quanto sopra, secondo il mio modesto avviso è
tanto più esiziale per il futuro del Pd di
quanto non lo sarebbe mai stato un Segretario
scaturito invece da una riflessione, un
ragionamento, una pragmatica valutazione della
difficile realtà nazionale ed internazionale che
ci circonda in questa nostra travagliata epoca.
Di tutto l'Italia avrebbe infatti avuto di
bisogno al momento meno che di un'ulteriore
sacerdotessa del politicamente corretto, dei
diritti annunciati senza se e senza ma, di
un'ideologa della "feroce" opposizione "tout
court" in ossequio a narrazioni politiche ormai
scavalcate da una Storia corrente, certo
ingiusta e crudele, ma a cui opporre soltanto un
"wishful thinking" di natura prettamente
velleitaria non aiuterà il paese a confrontarsi
serenamente ed a cercare di crescere. Il muro
contro muro di opposizione già preannunciato
della Schlein in ossequio a principi
precostituiti e non ad una lettura del concreto
con cui confrontarsi, non è una buona notizia
per l'Italia. Il governo Meloni avrà dunque, con
il nuovo" PD sulla propria strada, un inciampo
sterile, rissoso, velleitario, ideologizzato ed
in fin dei conti autodistruttivo; il tutto a
totale beneficio di quel a lungo sottovalutato
Giuseppe Conte che ha ben compreso, sin dalla
fine della scorsa legislatura, che l'opposizione
diciamo "proletaria" non potrà, per poter
sopravvivere, che arroccandosi, almeno per il
momento, in un ideologico, prettamente
rivendicativo, del tutto autoimposto, ed in fin
dei conti soltanto fastidioso, "aventino".
E si, diceva proprio bene la buon'anima della
mia cara mamma: "agire e mai reagire".
Conseguenza? Una Giorgia Meloni alla Paulo
Dybala: palla sul dischetto, finta a sinistra e
pallone tutto alla destra dello statico Portiere
avversario.
2/3/2023 |
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POLITICA |
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POLITICHE DI DECENTRAMENTO E GOVERNO LOCALE |
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Se è vero che politica deriva da Polis, ovvero
città, allora la politica è l'uomo.
Perché l'uomo è la città. Equazione matematica o
metafora?
Senz'altro non la città metropoli, un aggregato
magmatico e informe privo di coesione.
Piuttosto la polis - villaggio nella quale la
res publica è esercizio comunitario.
La dimensione micro è stata la cifra
caratteristica della più antica democrazia al
mondo: quella Ateniese. E continua ad esserlo
tutt'oggi, nel modello collegiale - consultivo
della Confederazione Elvetica.
A distanza di millenni, la risposta ai problemi
globali potrebbe provenire dagli Stati più
piccoli.
Non è un caso, infatti, che al primo posto per
le classifiche riguardanti la competitività
globale e la qualità delle infrastrutture si
trovino due micro Stati: Svizzera e Singapore.
Ora in realtà si potrebbe aprire un discorso a
parte. Seguendo la formula presentata dal
politologo indiano Parag Khanna, una forma di
governo ibrida sarebbe quella ideale per lo
Stato del XXI secolo, definito Info - Stato: una
tecnocrazia diretta, ovvero la fusione del
modello dal basso - deliberativo svizzero con
quello manageriale - top down - singaporiano.
Il segreto del successo di questi due Stati
riposa in un sapiente superamento delle
dicotomie classiche: l'abilità di saper far
convivere rappresentanza e governance, pubblico
e privato, pianificazione strategica e
iniziativa individuale.
Ma ciò è anche possibile grazie ad una visione
estremamente pragmatica, direi utilitarista
dello Stato. Visione che l'Occidente non
riuscirebbe - giustamente - ad accogliere del
tutto.
Ciò che voglio far emergere è tuttavia la
correlazione diretta tra dimensione [micro] e
risultati [macro].
Finita l'epoca della contrapposizione
ideologica, della divisione in due blocchi del
mondo, la politica sembra arrancare nel seguire
le innovazioni di ingegneria sociale che la
rivoluzione digitale ha apportato. Infatti, la
digitalizzazione ha modificato il tipico
impianto verticistico e centralizzato che aveva
contraddistinto le istituzioni politiche sin
dalla nascita della Stato sovrano. Internet e le
piatteforme funzionano seguendo
un'infrastruttura orizzontale e distribuita.
Creando delle comunità virtuali che possono
raggiungere dimensioni globali, il digitale ha
saputo dare nuova importanza alle istanze
particolari, locali. Nei media digitali manca
quel rapporto asimmetrico tipico della
tecnologia analogica. La radio, poi la tv, si
rivolgevano ad un pubblico indefinito relegato
ad un ruolo puramente ricettivo e passivo.
Nei social network invece l'utente è allo stesso
tempo consumatore e produttore di contenuti (prosumer).
Nella nuova dieta mediale la tendenza è sempre
di più quella della convergenza dei contenuti su
più piattaforme e dell'ibridazione di old e new
media.
Queste nozioni superano il campo della
sociologia dei media, acquisendo un significato
politico ed economico. La politica mutua spesso
le sue strutture dall'impalcatura sociale ed
economica della società.
Così se nella società di massa lo stato e i
partiti ricalcavano l'architettura della grande
fabbrica, nell'era digitale sarebbe necessario
che essi potessero sfruttare l'efficienza di una
nuova economia del potere, orizzontate e
distribuita.
Tradotto nella pratica: incentivare politiche di
decentramento e governo locale.
Detto così, sembrerebbe banalmente riaffermare
quello che nella nostra costituzione è già
previsto, ovvero il riparto delle competenze tra
Stato e Regioni. Ma non è semplicemente questo.
Si tratta di entrare in un'ottica in base la
quale lo Stato dovrebbe assumere la
consapevolezza che la politica nazionale non può
più essere tarata sulla base delle esigenze di
correnti di partito.
Ma deve sempre di più tener conto che un'Italia
a più velocità necessita di riposte calibrate in
base alle esigenze dello specifico territorio.
C'è anche qualcosa in più: comprendere che
questo processo di destrutturazione degli
apparati verticali è irreversibile.
Il governo locale permette una maggiore
saldatura tra la politica, la comunità e
l'amministrazione pubblica. Dovendo contare su
risorse - per quanto in alcuni casi abbondanti -
più limitate rispetto a quelle che dispone lo
Stato centrale, l'impulso dovrebbe essere quello
di investire sul capitale umano. L'investimento
sul capitale umano è ciò che permette ad un
territorio di fare dei salti di qualità
generazionali.
E con esso si potrebbe porre fine a quel
processo di fuga dei cervelli che pesa sempre di
più a livello demografico ed economico
soprattutto nel Meridione.
Insomma, il risultato di politiche di
decentramento potrebbe essere, di riflesso, un
rafforzamento del sistema Paese nel suo
complesso. Il governo locale è anche uno degli
strumenti principali per poter riattivare i
canali della partecipazione.
Nelle comunità montane o nelle isole, la
percezione del potere - fortezza limitato ai
palazzi del centro di Roma ha sicuramente
allontanato molti cittadini dalla politica e dal
voto. Ma una democrazia senza partecipazione è
un serio problema.
Promuovere il decentramento significa anche far
riacquisire alla politica quel senso di utilità
pragmatica che essa dovrebbe avere presso tutti
i consociati.
Perché è la politica il luogo delle scelte e
delle decisioni più importanti.
Anche qui seguire la logica delle infrastrutture
digitali potrebbe essere la chiave di volta per
un cambio di paradigma.
È oramai evidente che la complessità non si
governa con un "concerto" del sapere.
Ma al contrario è la settorializzazione delle
discipline ad aver contribuito all'innovazione e
alle scoperte.
Così in politica si dovrebbe far si che ciascuno
adotti minori decisioni, ma di maggior qualità.
Non sto teorizzando la rinascita delle città
Stato.
Sto solamente cercando di pensare ad un modello
di Governo che sappia attraverso il
decentramento aumentare il potere (hard e soft)
necessario per poter contare di più nei grandi
consessi internazionali.
Per ridare all'Italia centralità nel
Mediterraneo ed in Europa.
Essendo la politica l'arte del possibile, credo
- senza troppe pretese - che il compito di noi
scienziati politici dovrebbe essere molto simile
a quello che Karl Marx rivendicava per primo
nella sua riflessione filosofica: non solo
interpretare il mondo. Interpretare senz'altro,
per poterlo cambiare. |
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POLITICA |
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