POLITICA  
    di Cristofaro Sola    
       
    FALLIMENTO SILICON VALLEY BANK: EFFETTO FARFALLA    
   
Ci siamo presi un gran spavento, inutile negarlo. La notizia choc - alcuni giorni orsono - del default della Silicon Valley Bank a cui è seguita, in Europa, la crisi del Credit Suisse, colosso elvetico, ha gettato i risparmiatori nel panico. La sola idea di rivivere una tragedia finanziaria come fu quella dei mutui subprime - generatasi negli Stati Uniti nel 2006 - ha prodotto un'ondata di sfiducia nelle capacità di tenuta del sistema bancario globale.
Tuttavia, il temuto contagio non è avvenuto. Ed è una fortuna. Prima il Dipartimento del Tesoro Usa che, in concorso con la Federal Reserve e la Federal deposit insurance corporation (Fdic), è intervenuto con misure d'emergenza a garantire i risparmiatori coinvolti nel crac della sedicesima banca statunitense in ordine di grandezza; poi, l'intervento del presidente Joe Biden che si è detto pronto ad attivare qualsiasi misura necessaria pur di proteggere il settore bancario statunitense. Segno che il rischio di contagio per il sistema bancario globale, a causa di una crisi che è solo in parte endogena alle aziende interessate, è una possibilità che è sul tavolo. Non a caso, è stato acceso un faro su altre aziende di credito statunitensi di dimensioni regionali, ugualmente a rischio d'insolvenza. Si tratta di: First Republic Bank, Western Alliance Bancorp, PacWest Bancorp, East West Bancorp e Zions Bancorporation.
Non è poco. Come non lo è il caso europeo di Credit Suisse. Quando nei giorni scorsi il principale azionista della banca elvetica, la Saudi National Bank (Snb) - partecipata in quota maggioritaria dal Fondo per gli investimenti pubblici dell'Arabia Saudita (Pif) - ha detto "no" a un'immissione di liquidità nelle casse dell'istituto, il suo titolo è crollato al -30 per cento, dopo aver perso, da marzo 2021, l'83 per cento del suo valore. È stato necessario un massiccio intervento della Banca nazionale svizzera, sostanziatosi in 50 miliardi di franchi in prestiti a breve e l'impegno della stessa banca a riacquistare 3 miliardi di euro del proprio debito senior, per riportare la calma sui mercati.
Con le borse che stanno recuperando terreno dopo i tonfi degli scorsi giorni, la tempesta finanziaria potrebbe considerarsi risolta. Ma non è così. Resta l'allarme per un pericolo che è stato evitato ma non eliminato, giacché non ne sono state rimosse le cause originarie. Oltre ai gravi errori reiterati dalle governance delle aziende coinvolte, tra queste cause vi è l'inversione di tendenza delle politiche monetarie messe in campo dalle banche centrali per fronteggiare l'impennata inflazionistica. Il rialzo dei tassi d'interesse sul costo del denaro ha innescato il meccanismo perverso che ha portato al default della banca statunitense e al rischio concreto che altre nel prossimo futuro possano subire il medesimo destino. Cos'è accaduto negli Stati Uniti? La decisione della Federal Reserve (Fed) di puntare sul rialzo dei tassi d'interesse per frenare la spinta inflattiva ha costretto il sistema delle start-up californiane della Silicon Valley, principali clienti della Svb, a dotarsi di maggiore liquidità, togliendola alla banca di riferimento. Quest'ultima, per fare fronte alle richieste della clientela, si è vista costretta a reperire denaro sul mercato, alienando in perdita obbligazioni e titoli, in particolare quelli del debito sovrano statunitense i quali, per effetto delle politiche monetarie della Fed, avevano subito perdite di valore.
Il crollo ha avuto immediati contraccolpi in Gran Bretagna, dove la Bank of England ha chiesto lo stato di insolvenza per la Svb Uk, e ne ha bloccato i pagamenti e i depositi. L'Europa della zona euro, invece, è sotto la stretta sorveglianza della Banca centrale europea la quale, in fatto di lotta all'inflazione, la pensa allo stesso modo dell'omologa autorità di vigilanza statunitense. È ragionevole ipotizzare che entrambe le istituzioni finanziarie, che operano sui due versanti dell'Oceano Atlantico, si trovino ad affrontare il medesimo dilemma: scegliere tra lotta all'inflazione e stabilità finanziaria, atteso che, come dimostrano i fatti di questi giorni, le due cose non si tengono insieme. La Bce ha confermato la linea dura nella lotta all'inflazione attraverso l'innalzamento del tasso d'interesse di 50 punti base. Al contrario degli Stati Uniti, dove la politica di intervento sul rialzo del costo del denaro vive una fase di ripensamento dopo il crollo della Svb. Tuttavia, se questo è il quadro non possiamo mancare di osservare che all'insieme manchi un nesso causale decisivo. Il convitato di pietra di questa storia è la guerra russo-ucraina. Qui le tifoserie da stadio non c'entrano nulla, men che meno c'entra il pacifismo peloso dei "buonisti in servizio permanente effettivo", i quali brigano per uno stop all'invio di armi all'Ucraina, non avendo mai smesso di sperare nella sconfitta di quella stessa civiltà occidentale che li ha partoriti.
Occorre una riflessione seria e pacata sulle conseguenze di una guerra che i Paesi Nato hanno pensato di combattere per interposto popolo ucraino, nella granitica certezza di poter avere rapidamente la meglio sul nemico russo, valutato inferiore dal punto di vista economico, strategico e geopolitico. Si è ritenuto che il combinato disposto di sanzioni economiche e forniture di armamenti all'Ucraina avrebbe messo all'angolo l'autocrate moscovita, Vladimir Putin, costringendolo alla resa. Dopo un anno di durissimi scontri la situazione sul campo è in stallo ma con un leggero vantaggio per i russi che, seppure lentamente, continuano ad avanzare nel Donbass. L'Ucraina è allo stremo da tutti i punti di vista e adesso comincia ad avere problemi di mancanza di uomini da mandare al fronte. Il preconizzato crollo dell'economia russa non c'è stato. L'evento bellico ha spinto i vertici del Cremlino a riavviare la produzione dei sistemi d'arma convenzionali. Se è vero che l'Europa è riuscita in parte a disinnescare l'effetto sulle proprie economie dell'interruzione degli approvvigionamenti di materie prime energetiche dal fornitore russo, è altrettanto vero che Mosca non si è persa d'animo e ha girato ad altri clienti sparsi nel mondo lo stock di petrolio e gas eccedente dopo la risoluzione dei contratti di fornitura con i Paesi europei. L'Occidente si è trovato a fare i conti con un'inflazione non prevista, generatasi sul lato dell'offerta, che ha avuto conseguenze devastanti sulle economie nazionali.
Ora, la crisi finanziaria che rischia di sistematizzarsi è solo l'ultimo in ordine di tempo degli effetti della teoria del Caos applicata alla geopolitica: un missile russo su Bakhmut provoca il fallimento di una banca negli Stati Uniti. Si chiama "effetto farfalla". Le opinioni pubbliche occidentali dovrebbero spingere i Governi a riconsiderare la possibilità di aprire al negoziato di pace con Mosca, mettendo in conto che una soluzione comporterebbe inevitabilmente sacrifici territoriali, e non solo, per l'Ucraina. Per restare con i piedi per terra, non si potrà andare oltre un cessate-il-fuoco permanente che cristallizzi la situazione come oggi si rappresenta sul terreno. Sarebbe una soluzione analoga a quella adottata per porre fine, nel 1953, alla guerra di Corea. Nelle condizioni date, l'unica certezza resta la guerra, pur con tutti i rischi che l'accompagnano, a meno che non sia proprio l'inquilino della Casa Bianca, impegnato a tutelare gli interessi del sistema finanziario del suo Paese, a cambiare rotta ridimensionando drasticamente il sostegno, oggi incondizionato, alla causa ucraina. Non sarebbe una novità. È accaduto in Afghanistan, dove gli Usa hanno permesso ai talebani di riprendersi il potere senza averli prima vincolati al rispetto dei diritti umani.
Comunque vada, la vicenda della crisi finanziaria sfiorata è un campanello d'allarme per i governanti europei. Il prolungarsi della guerra è causa di fallimento delle economie occidentali quanto potrà esserlo in futuro del sistema economico-finanziario russo. Non possiamo concederci il lusso di attendere che il nemico imploda, quando vi sono segnali evidenti di crepe nel paradigma occidentale. L'auspicio è che un sano realismo spinga i vertici politici dei Paesi Nato a cambiare postura nelle relazioni con Mosca. Sperare che la situazione non sfugga di mano non è disfattismo antipatriottico. É puro buonsenso.
   
   
         
    POLITICA    
    di Cristofaro Sola    
       
    NAUFRAGI E IMMIGRATI: IL PANE AZZIMO DELLA DEMAGOGIA DI PARTE    
    Il Governo Meloni stia in campana, la sinistra è tornata. Non che questo rappresenti un problema serio. Tuttavia, il pericolo nasce dalla capacità manipolatrice dell'informazione che il Partito Democratico ha ricevuto in dote dall'avo comunista e grazie alla quale la minoranza, in Parlamento e nel Paese, riesce a dettare l'agenda alla maggioranza. L'evidenza di una tale distorsione della dialettica democratica è sotto gli occhi di tutti, proprio in questi giorni. Nonostante il Governo sia impegnato su diversi fronti, tutti delicatissimi, per aiutare la nazione a lasciarsi alle spalle anni di crisi, di cosa parlano a ciclo continuo i media organici alla sinistra, costringendo a farlo anche a quei pochi canali d'informazione che di sinistra non sono? Del naufragio di Cutro e di altre analoghe sciagure. Ora, con tutto il rispetto per le vittime delle tragedie del mare, si può pensare di ridurre la questione Paese a ciò che è successo a Cutro? La sinistra lo spera. Il centrodestra non caschi nella trappola. Faccia in modo di uscire dall'angolo in cui la sinistra ha cercato di portarlo e riprenda il dialogo con i cittadini sui temi che maggiormente li preoccupano.
Riguardo alle polemiche sui soccorsi, è veramente disgustoso che le si usino strumentalmente come arma di distrazione di massa. Non solo Cutro. Anche l'ultima sciagura che ha visto la morte di 30 migranti, capitata a largo delle coste libiche, si è trasformata in un atto d'accusa contro il Governo italiano, tacciato di non fare abbastanza per salvare le vite umane. Adesso basta! Basta con l'attentare alla dignità nazionale. La sinistra s'illude se pensa che questo sia il modo di recuperare consensi. La gente non è stupida. La maggioranza non rumorosa degli italiani ha compreso perfettamente che l'Italia c'entra fino a un certo punto con ciò che accade nel Mediterraneo meridionale; che non può essere il nostro Paese a farsi carico di tutta la disperazione del mondo, come non possono essere gli italiani i responsabili morali delle sciagure che spezzano le vite di coloro che accettano la scommessa della migrazione attraverso la via della criminalità. Bisogna che si prenda atto di un'orrenda verità: l'emigrazione è entrata a far parte dell'armamentario che gli Stati dispotici e le satrapie utilizzano per ricattare altri Stati. Ma non sono solo i "cattivi" a fare uso dell'arma migratoria. Anche i cosiddetti "buoni" - vedi i membri dell'Unione europea - in questi ultimi anni, si sono comportati malissimo lasciando che una questione di dimensioni epocali, qual è il fenomeno delle migrazioni di massa, si scaricasse sull'Italia.
Si prenda il caso dell'ultimo naufragio in ordine di tempo. Il barcone con 47 migranti a bordo si è rovesciato davanti alle coste libiche mentre la Guardia costiera italiana, che aveva ricevuto alcune ore prima del naufragio la segnalazione di un natante in difficoltà nell'area Sar (Search and Rescue) libica non sarebbe giunta per tempo a recuperare i naufraghi. La domanda è: perché solo la forza navale italiana sarebbe dovuta intervenire? La nostra Guardia costiera ha richiesto alla Libia e a Malta di effettuare l'intervento Sar, ma ha ricevuto un rifiuto da entrambi gli Stati. Eppure, il barcone era poco fuori delle acque libiche. Sì, ma di quale Libia parliamo, visto che ne esistono al momento tre? Non era il mare della Tripolitania - la zona della Libia più vicina all'Italia - a essere la scena del naufragio ma quello della Cirenaica. Il barcone, quando si è rovesciato, si trovava a 113 miglia a nord-ovest di Bengasi. Ciò vuol dire che, prima della costa italiana, vi sarebbero state altre opzioni più immediate ai fini del salvataggio dei naufraghi. È sufficiente consultare una carta nautica del Mediterraneo meridionale per rendersi conto dell'assurdità di prendersela con gli italiani, sempre e comunque. Escludendo la Guardia costiera libica che fa capo al Governo di Tripoli, la forza navale prossima al luogo del naufragio è quella egiziana. Perché l'allarme non è arrivato anche al Cairo?
Se l'Egitto non piace, resta la Grecia. L'isola di Creta, che è greca ed è territorio dell'Unione europea, dista da Bengasi 302 miglia nautiche, molto meno di quanto disti la costa siciliana (386 miglia). Eppure, dell'alert alla Grecia non si fa menzione. È la seconda volta che capita in pochi giorni. Nella tragedia di Cutro la Grecia non viene chiamata in causa. Eppure, dei quattro giorni di navigazione che il caicco ha compiuto dal porto turco di Smirne per raggiungere la Calabria, tre li ha trascorsi navigando lungo le coste del Peloponneso. Perché gli scafisti non hanno cercato immediato approdo nelle terre del mare Egeo? Perché la presenza in mare della nave dei trafficanti di esseri umani non è stata segnalata alle autorità marittime greche affinché prestassero soccorso? Forse la Grecia gode di una speciale esenzione quando si tratta di salvare dalle acque gli immigrati irregolari? Evidentemente sì, visto che gli aerei dell'agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex neanche ci vanno a sorvolare le rotte dei trafficanti in quella parte del Mediterraneo. E c'è Malta a 368 miglia nautiche da Bengasi, che però non manda i propri mezzi navali a effettuare salvataggi in mare neppure a pagarla oro.
Siamo al cospetto di un bizzarro dogma della filosofia dell'accoglienza secondo il quale per i migranti non c'è altro luogo di approdo che non sia l'Italia. Come ampiamente dimostrato dai governanti francesi, i quali si sono sentiti idealmente violentati quando sono stati costretti ad aprire un loro porto una sola volta, a una sola, unica nave delle Ong che trasportava immigrati irregolari, non esiste per la comunità degli Stati europei un altrove possibile da opporre a una sentenza che condanna il nostro Paese a essere il recettore universale della disperazione dell'umanità. Si può andare avanti in questo modo? I Servizi segreti hanno fatto sapere che nella sola Libia vi sono 685mila immigrati pronti a salpare in direzione delle nostre coste. A tale massa gigantesca vanno aggiunti i potenziali 300mila che dalla Tunisia si preparano a mettere piede sul suolo italiano.
L'onda migratoria prevista nel 2023 avrà un impatto insostenibile sul sistema socio-economico nazionale. Inutile bussare alla porta europea per ricevere un aiuto concreto perché, sulla richiesta italiana di redistribuzione degli immigrati economici accolti, i Paesi partner - tutti, nessuno escluso - non ci staranno mai. Non intendono in alcun modo assecondare e condividere il "buonismo" nostrano dell'accoglienza illimitata.
Piaccia o no, a questo punto l'unica opzione praticabile, in attesa che le politiche di medio/lungo termine studiate dal Governo Meloni per la gestione del dossier migrazioni dispieghino i loro effetti, resta quella dell'intercettazione in mare, da parte delle navi della Marina militare, dei barconi, la prestazione del soccorso agli immigrati e la loro riconsegna immediata ai luoghi di partenza, in Libia e in Tunisia. Non esiste altra strada, per il Governo Meloni, che la soluzione drastica se non vuole essere preda dello stillicidio giornaliero di polemiche inscenate dalla demagogia propagandistica della sinistra.
Una chiosa in calce. Il barcone è naufragato davanti alla costa di Bengasi, capitale della Cirenaica, regione della Libia notoriamente sotto il controllo delle truppe mercenarie russe della brigata Wagner. Di recente, da Mosca hanno ricordato quanto malamente abbiano accolto il riposizionamento strategico dell'Italia sulla crisi ucraina e abbiano ricordato altresì come l'arma della migrazione sia nel novero degli strumenti d'attacco di cui la Russia dispone per nuocere agli sponsor dell'Ucraina. Alla luce di quanto accaduto in acque della Cirenaica, cosa dobbiamo sospettare? Che i quasi 700mila in arrivo dalla Libia siano la bomba sporca che il Cremlino ha in serbo per l'Italia?
   
       
       
         
    POLITICA    
    di Cristofaro Sola    
       
    ELLY E ROMANO: IL BRACCIO E LA MENTE    
    La neoeletta segretaria del Partito Democratico Elena Ethel Schlein, detta Elly, per l'opinione pubblica resta una sorta di oggetto misterioso. Sbucando fuori dal nulla è riuscita a mandare al tappeto un peso massimo della stazza politica di Stefano Bonaccini, lo sconfitto alle primarie Pd che è tornato con le pive nel sacco al suo mestiere di presidente della Regione Emilia-Romagna. È come ha detto lei: gli iscritti al partito non l'hanno vista arrivare. Elly Schlein è la classica outsider, cioè la persona giusta che riesce a trovarsi nel luogo giusto al momento giusto per modificare il corso di una storia collettiva. Tuttavia, la favola dell'eroe spuntato dal nulla che interviene a salvare una porzione di umanità morente (politicamente parlando) guidandolo attraverso una palingenesi è frutto di una visione mitica della realtà che non sposa la cruda semplicità di una storia personale costruita all'interno di un gruppo familiare e di un contesto sociale in confidenza con il potere.
Benché giovane, Elly è il cavallo di razza del progressismo radicale sul quale puntare per la vittoria. Famiglia di buone origini - il nonno materno, Agostino Viviani, è stato negli anni Settanta senatore della Repubblica in quota al Partito Socialista Italiano - ottimi studi liceali e universitari, un gran fiuto per la politica. Una volta si sarebbe detto: "La ragazza promette bene". Doti innate e capacità acquisite nel tempo che tuttavia non fanno di lei una Giovanna d'Arco e neppure una Rosa Luxemburg. Elly è un'ottima frontwoman, sa reggere la scena nel teatrino della politica politicante e la sua prossemica è accattivante. Ma non è lei l'autrice del suo racconto politico. Il "Ghostwriter", la mente che è alle sue spalle, lo sceneggiatore che ha scritto il copione della sua ascesa alla guida del primo partito della sinistra è un consumato protagonista del potere, da sempre esercitato con assoluta discrezione su scala nazionale e internazionale. Parliamo del "professore" Romano Prodi, l'uomo dell'"Eterno ritorno dell'uguale", per dirla alla maniera di Friedrich Nietzsche. C'è lui dietro la vittoria della Schlein. I due si conoscono per frequentazioni famigliari. Lei, poco più che ragazzina, in risposta al siluramento del professore bolognese nella corsa per la presidenza della Repubblica nel 2013, per mano dei famosi 101 franchi tiratori del Pd che nel segreto dell'urna gli negarono il sostegno decisivo, s'inventò quella reazione di fresca innocenza giovanile chiamata #Occupy Pd. Con la sua creatura si mise a occupare le sedi del partito in segno di protesta per l'affossamento della candidatura di Prodi al Quirinale. Sembrava una sparata movimentista, invece era un seme piantato nel terreno che prima o poi avrebbe dato frutti. Ed eccola che, passata attraverso un peregrinare tra sigle di partiti e movimenti non senza capitalizzare in scranni al Parlamento europeo e nella Giunta regionale dell'Emilia-Romagna il successo conseguito presso l'opinione pubblica, si è ritrovata di punto in bianco al vertice di un partito in crisi al quale, peraltro, fino a qualche settimana prima del voto dei circoli locali non era iscritta.
Ora il disegno prodiano di riprendersi il Partito Democratico ha una sua protagonista. Se inizialmente quella della mano di Prodi dietro la vittoria della Schlein poteva essere un'illazione da gossip della politica, le recenti uscite pubbliche del professore, che improvvisamente ha ritrovato una verve presenzialista sui media, spazza via ogni possibile dubbio sul suo coinvolgimento nel successo del nuovo corso giovanilista del Pd. Con un'intervista a Repubblica, alla quale ne è seguita un'altra concessa a Lucia Annunziata per la trasmissione televisiva domenicale "Mezz'ora in più", Romano Prodi è sceso in campo a tranquillizzare gli ambienti industriali e finanziari, tradizionalmente accondiscendenti con la vocazione governista della sinistra ex-comunista, spaventati dal massimalismo infantile della giovane leader e, nel contempo, a dettare la linea del nuovo corso Pd. Cos'ha detto il professore? Che il voto popolare alle primarie ha rianimato un partito catatonico; che la partecipazione della Schlein alla manifestazione antifascista di Firenze, lo scorso sabato, accanto al leader Cinque Stelle, Giuseppe Conte, e al capo della Cgil, Maurizio Landini, è stata un'esplorazione per possibili scenari futuri; che Elly deve concentrarsi sul definire un programma il quale ridisegni l'identità del partito e solo dopo preoccuparsi delle alleanze. E sull'approccio movimentista della nuova segretaria? Prodi ne è entusiasta. Per lui un po' di radicalismo nell'offerta politica è necessario, perché su alcuni temi bisogna essere radicali per poter parlare alla società.
Il Pd dell'ultimo decennio, governista a oltranza, aveva perduto ogni spinta aggregante per adattarsi a essere una forza politica schierata a difesa degli interessi dei poteri forti. Prodi cita il caso di Enrico Letta, non difeso da nessuno dei suoi quando provò a porre la questione dell'introduzione della patrimoniale per aiutare i giovani inoccupati. Tutto lascia prevedere che nella cabina di comando del Pd targato Elly Schlein, insieme a una varia umanità di improbabili figure arcobaleno, il professore avrà il ruolo di ufficiale di rotta con qualche peso nella scelta dell'equipaggio. Lo si è visto nel modo con cui ha schivato l'insidiosa domanda sul coinvolgimento di Bonaccini nella gestione unitaria del partito. Prodi ha risposto secco che non sarà necessario che i due (Elly e Stefano) lavorino insieme, ma è sufficiente che vi sia uno spirito di collaborazione. Riguardo alla politica estera del Pd qualcosa di nuovo la si vedrà molto presto. La posizione del partito sulla guerra ucraina subirà una modifica sostanziale, sebbene in apparenza impercettibile. La Schlein sarà più "aperturista" rispetto al suo predecessore verso la soluzione diplomatica del conflitto. Da oggi Mosca può contare sul ritorno di un altro amico nel dibattito politico italiano. Già, perché ciò che molti ignorano o fingono d'ignorare è il fatto che Vladimir Putin non avesse solo Silvio Berlusconi come grande amico italiano. L'altro, altrettanto stimato e amato al Cremlino, è il professor Prodi. La differenza con il leone di Arcore è che Prodi, oltre a essere in sintonia con Mosca, è grande sostenitore del ruolo della Cina quale player geopolitico globale. Non è un caso che, nel corso dell'intervista televisiva, abbia insistito nel ritenere che la chiave di soluzione del conflitto che insanguina l'Est Europa sia nelle mani di statunitensi e cinesi e, contestualmente, abbia messo in guardia dal pensare che l'atlantismo possa essere solo armi e niente diplomazia.
Aspettiamoci allora che nelle prossime uscite pubbliche di Elly sull'argomento guerra in Ucraina si sentirà citare la parola Pechino molto più di quanto non la sia udita con Enrico Letta regnante. Sarà un colpo basso per il Governo Meloni. Il riposizionamento sulla politica internazionale del Pd finirà per costituire un grosso problema per il nostro premier, che si troverà a interloquire con un Parlamento nel quale la maggioranza dei partiti, che sarà trasversale, sebbene continuerà nelle parole a dirsi schierata con l'Ucraina, nella sostanza coltiverà l'idea che una pace per la quale Kiev dovesse pagare un qualche prezzo anche territoriale sarebbe possibile. Di certo c'è che, d'ora in avanti, non dovremo limitarci a valutare l'impatto sulla politica italiana della variante movimentista e radicale rappresentata da Elly, ma dovremo considerare il valore aggiunto che reca alla sinistra il "fattore P". Dove "P" sta per Prodi.

   
         
       
    POLITICA    
    di Cristofaro Sola    
    CINQUE STELLE E COVID: EFFETTI INDESIDERATI    
    Mettetevi comodi. Procuratevi un secchiello colmo di popcorn - a chi non piacciono i popcorn - e godetevi lo spettacolo. Sta per andare in scena la pièce tragicomica dei Cinque Stelle che perdono quella faccia che non hanno mai avuto. L'occasione per l'ennesima messinscena dell'Opera buffa pentastellata si è presentata con l'avviso di chiusura delle indagini da parte della Procura della Repubblica di Bergamo che faceva luce sull'ipotesi di reato di epidemia colposa e omicidio colposo per la diffusione anomala del Covid in Val Seriana. All'esito dell'inchiesta, durata tre anni, sono stati emessi 19 avvisi di garanzia che hanno raggiunto il capo del Governo e il ministro della Salute in carica all'epoca dei fatti contestati, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e l'allora assessore regionale lombardo alla Sanità, Giulio Gallera. Risultano indagati anche i vertici del Comitato tecnico-scientifico che ha coadiuvato il lavoro del ministro della Salute, Roberto Speranza, nel corso della crisi pandemica nonché l'ex capo del Dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli, e l'ex direttore vicario dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Ranieri Guerra.
Ça va sans dire, il presidente del Consiglio che ha gestito la prima fase della pandemia è stato Giuseppe Conte. Ed è di lui che desideriamo occuparci, tralasciando per il momento ogni considerazione sulla fondatezza di un procedimento penale costruito post festum. Vi domanderete perché solo Giuseppe Conte. Semplicemente perché lui è grillino, anzi è il capo dei grillini. Cioè è il leader di quella banda degli onesti che, con il proprio giustizialismo d'accatto, ha ammorbato l'aria già poco salubre della cosiddetta "Terza Repubblica". Le regole del Codice etico del Movimento - a proposito, è ancora in vigore? - non sanciscono il principio-cardine della presunzione di gravità nella valutazione di eventuali reati contestati dall'Autorità giudiziaria a un indagato appartenente al Cinque Stelle? L'iscritto Giuseppe Conte, ricevuta l'informazione di garanzia, avrebbe dovuto procedere all'autosospensione da tutte le cariche rivestite nel partito. Non risulta l'abbia fatto. Risulta invece che nessuno tra i grillini glielo abbia chiesto. Ma come? Non erano quelli che pretendevano le dimissioni di chiunque altro esponente pubblico venisse solo sfiorato da un'indagine giudiziaria? Non erano quelli che onestà-onestà era il grido di battaglia per l'assalto al cielo del potere inquinato dal malaffare? E il garante del Movimento, "l'elevato", il comico censore dei costumi altrui, Beppe Grillo, cosa pensa?
Per i pentastellati l'avvocato di Volturara Appula non si tocca, forse perché nella loro bizzarra concezione del Diritto, che provocherebbe un'eccitazione orgasmica a un gigante della Teoria del Diritto stesso quale Hans Kelsen (se fosse in vita), le regole sono fatte solo per chi non si sa regolare. E loro, i grillini, si sanno regolare. Sono uomini e donne di mondo che non necessitano di codici comportamentali ai quali attenersi. Perciò, si accusino pure gli altri delle peggiori nefandezze, mentre il loro leader è talmente candido e specchiato da dover essere giudicato innocente a prescindere, come direbbe Totò.
Tuttavia, la vicenda non può essere liquidata facilmente e, soprattutto, senza clamori mediatici. Dopo l'avviso di chiusura indagine, per gli inquirenti, il passo successivo è la richiesta al Giudice del rinvio a giudizio degli indagati. Ne vedremo delle belle. La posizione di Giuseppe Conte, insieme a quella di Roberto Speranza, verrà stralciata e inviata per competenza al Collegio chiamato, a norma della Legge costituzionale del 16 gennaio 1989, numero 1, a pronunciarsi sui presunti reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Ma il rinvio alla giurisdizione del "tribunale dei ministri" non è automatico. Occorre che la Camera legislativa di appartenenza dell'indagato si pronunci sulla concessione dell'autorizzazione a procedere. Come si comporterà Giuseppe Conte nel passaggio parlamentare? Come si posizioneranno i pentastellati? Cosa faranno gli altri partiti? Già, perché dallo scorso 25 settembre la musica è cambiata. La maggioranza in Parlamento è di centrodestra. Quindi, le sorti processuali di Conte e di Speranza sono nelle mani dei loro avversari. L'attuale coalizione che governa il Paese è in grado di mandarli a processo? Lo farà? Non dimentichiamo che nel centrodestra, in particolare in Forza Italia, vige l'inderogabilità del principio della non interferenza del potere giudiziario nelle dinamiche della politica. In condizioni ordinarie, avremmo suggerito a Conte e a Speranza di stare tranquilli perché non gli sarebbe accaduto nulla. Oggi è un'altra storia. C'è stata di mezzo l'ignobile vicenda della concessione dell'autorizzazione a procedere a carico dell'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini, per il reato gravissimo di sequestro di persona commesso in danno degli immigrati presenti a bordo di navi che ne avevano effettuato il recupero in mare. In quel frangente, i Cinque Stelle erano al potere con il centrosinistra e volevano farla pagare all'ex alleato leghista, colpevole di aver affondato il primo Governo Conte. E lo fecero. Sono passati alla storia i sorrisetti compiaciuti del premier Giuseppe Conte e dell'allora ministro degli Esteri, il grillino Luigi Di Maio, all'esisto delle votazioni in Senato che consegnavano Salvini alla Giustizia ordinaria. È lecito domandarsi: cosa farà la Lega? Restituirà la pugnalata ricevuta e chiederà agli alleati di fare altrettanto?
Di là dalle umane vendette, esiste un problema sostanziale che il centrodestra non può ignorare ai fini della valutazione sul comportamento da assumere in sede di votazione. Se non dovesse concederla, essendo coinvolti nel procedimento penale anche due esponenti politici del centrodestra - il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, e l'ex assessore regionale Giulio Gallera - che non godono delle medesime garanzie costituzionali di cui beneficiano i due ex membri del Governo, si potrebbe determinare la paradossale condizione di un processo delicatissimo, che ruota sulle decisioni assunte dai vertici governativi per fronteggiare il dilagare dell'epidemia, portato avanti solo a carico di una parte politica non al Governo all'epoca dei fatti mentre l'altra, quella della sinistra dei Cinque Stelle e del Partito Democratico a cui oggi è collegato Speranza, non verrebbe toccata. È ipotizzabile che, annusata l'aria, Giuseppe Conte e Roberto Speranza giochino d'anticipo fingendo il beau geste di essere loro a chiedere di essere mandati a processo e non di attendere il voto sfavorevole dell'Aula.
Indipendentemente da ciò che vorranno fare i due, resta la domanda su quale sarà l'atteggiamento in Aula dei Cinque Stelle. Comunque vada, sono in un cul-de-sac. Se voteranno contro l'autorizzazione a procedere renderanno manifesto, pur di favorire il loro leader, il tradimento delle regole che essi stessi si sono dati. Se voteranno a favore della richiesta dei giudici, avranno salvato la faccia davanti all'elettorato che li giudica, ma saranno precipitati in una contraddizione che ugualmente li discredita. Come pensare di tenersi un solo minuto di più un leader contro cui essi stessi hanno votato un'autorizzazione a procedere? Non sarà meno scomoda la posizione del Pd. Sotto la segreteria del rancoroso Enrico Letta un voto favorevole all'autorizzazione a procedere sarebbe stato scontato.
Oggi c'è al timone del partito Elly Schlein, che punta a ricucire il rapporto con i Cinque Stelle. Come farlo se i "dem" non mostrano solidarietà verso il capo pentastellato? C'è poi la posizione di Roberto Speranza. Fino a ieri l'ex ministro della Salute capeggiava una formazione politica minore ma formalmente autonoma, benché ancillare al Partito Democratico. Però, proprio in questi giorni Speranza ha annunciato l'intenzione di fare ritorno alla casa-madre. Che fanno i "dem", lo "fottono" ancor prima di accoglierlo? Probabilmente, l'inchiesta di Bergamo, come molte altre dello stesso genere, finirà in una bolla di sapone. I parenti delle vittime si dovranno accontentare, a titolo riparatorio, di alcuni anni di gogna mediatica che verrà somministrata agli imputati. Andrà peggio ai Cinque Stelle i quali, essendo cresciuti elettoralmente in una bolla di sapone, proprio come una bolla di sapone si dissolveranno nel nulla. Nessuna meraviglia. Non è forse scritto nella Bibbia: cenere alla cenere, polvere alla polvere?
   
       
    POLITICA    
    di Lino Lavorgna    
       
QUANTO SEI BELLA, EUROPA
    INCIPIT
"Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l'arena stampi". (Francesco Petrarca)

"Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia". (Ernst Jünger)

"Quando mi veniva voglia di capire qualcuno o me stesso, prendevo in esame non le azioni, nelle quali tutto è convenzione, bensì i desideri. Dimmi cosa vuoi e ti dirò chi sei". (Anton Pavlovic Cechov)

"Mamma, perché hai scelto Pompeo come secondo nome? Lo sto studiando ora e non è che mi piaccia molto". "Sapevo che non ti sarebbe piaciuto, ma non ti dirò perché ti ho chiamato come lui. Dovrai scoprirlo da solo". "E come?" "Vi sono solo tre modi: studiare bene la storia; non fidarti di ciò che studi; impegnarti a scoprire dove si celi l'imbroglio. Se vi riuscirai, vorrà dire che avrai capito il senso della vita. E sarai un uomo migliore". "E se non vi riuscirò?" "Poco male, sarai come la maggioranza del genere umano". (Giuseppina Federico, la Maestra, mia Madre, 1966)

"Sei nato troppo tardi rispetto al passato e troppo presto rispetto al futuro, ma per quelli come te questa frase sarebbe valida sia nel passato sia nel futuro, quindi non crucciarti e cerca solo di imparare a convivere col presente, senza farti male". (Papà Lorenzo, l'uomo che sapeva solo amare, 1974).

"Se un giorno dovessi renderti conto che ti occorrono più di cinque secondi per scegliere le prime parole di un articolo, non scriverlo quell'articolo". (Piero Buscaroli, 1975)
"La più consistente scoperta che ho fatto dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare". (Jep Gambardella, 2013; Lino lavorgna, 2020).

Ille est Pasquale, qui difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest. (Michele Falcone, amico del cuore, 2015).
*****
Caro direttore, caro amico Angelo,
son passati cinquantuno anni da quando, con il cuore che batteva forte, ricevetti da Nino Tripodi la nomina a corrispondente da Caserta del "Secolo d'Italia". Da oltre mezzo secolo, quindi, su vari organi di stampa, non faccio altro che parlare dei mali del mondo e di ciò che servirebbe per curarli. Non ho mai pensato che i miei scritti potessero influire in qualche modo sul corso degli eventi, anche perché ho sempre relegato l'impegno giornalistico in una dimensione collaterale a preminenti impegni professionali. Nondimeno mi è sempre piaciuto esporre il mio pensiero, tirare sberle a fil di penna ai lestofanti, sbeffeggiare i mestatori, suggerire ciò che ritenevo potesse costituire un correttivo a qualsivoglia bruttura, in buona o cattiva fede commessa. Da otto anni, non ho mai mancato, in questo magazine, di perpetuare le consolidate metodologie analitiche, facendo talvolta anche riferimento agli scritti di un passato che sembra remoto, e di fatto lo è, anche se reso attualissimo dal ciclico ripetersi delle distonie epocali e dalla mancata attenzione a chi, con largo anticipo rispetto ai tempi attuali, aveva previsto la deriva planetaria verso gigantesche forme di disfacimento e disperatamente cercava di farsi ascoltare. Io ero e sono ancora tra costoro, ma ciò che vedo ora è troppo nauseabondo e pesante da digerire. Soprattutto è pesante da descrivere, come meglio si percepirà più avanti, e pertanto ho deciso di cambiare registro narrativo.
Ho vissuto e continuo a vivere all'insegna di valori rigorosi, per i quali ho pagato, con piena consapevolezza, un prezzo altissimo. Pur volendo, del resto, non sarebbe stato possibile altrimenti, per manifesta incapacità a derogare da quelle regole insite nel Dna ed esaltate dal continuo esempio di Genitori straordinari, più unici che rari. Va bene così, quindi, mentre vago tra i ricordi, indelebili, perché carta canta, assaporando il magnifico profumo di una libertà assoluta e totale, che mi ha consentito di camminare sempre a testa alta e di farla abbassare ai servi intrisi di squallore esistenziale, anche quando proprio grazie ad esso sono stati ritenuti utili al potere, traendone grande beneficio. Una libertà che senz'altro ha limitato i "doni materiali", ma mi ha consentito di ricevere quello più bello che un uomo - un vero uomo - potesse desiderare, racchiuso in quella stupenda frase presente nell'incipit, pronunciata da una delle poche persone che sono state capaci di amarmi senza riserve e con piena sincerità d'animo. Oggi Michele Falcone cavalca le verdi praterie, essendosi dovuto arrendere a quel terribile virus che ha flagellato l'umanità per circa tre anni, ma me lo trovo in ogni attimo al mio fianco, grazie proprio alla frase scritta con caratteri cubitali nel poster affisso alla parete, contenente un termine sublime il cui significato va ben oltre quello scontato che subito salta alla mente (per quella onestà non sarebbe stato necessario scomodare Eutropio, essendo sufficiente la storia personale e familiare) e sconfina in quei campi tortuosi che vanno arati con meticolosa cura, per discernere il grano dal loglio.
(Di seguito il link al mio ricordo: www.galvanor.wordpress.com/2021/02/17/michele-falcone-il-primato-della-cultura-come-bene-supremo/)
Ho conosciuto uomini straordinari e ho combattuto contro uomini potenti e spietati, alternando la gioia dei momenti esaltanti alle sfiancanti dure battaglie. Sono state belle le vittorie e dolorose le sconfitte, ma non mi hanno mai appagato le prime né fiaccato le seconde. Oggi, però, trovo indignitoso tenere la mia Excalibur sguainata contro le mezze cartucce che si sono impossessate di questa meravigliosa Terra che si chiama Europa. Assisto a un "gioco" tra bande nelle quali ciascuno recita la sua parte, facendo girare come trottole chiunque fosse estraneo al gioco. Non se ne parla nemmeno di diventare parte del gioco; tanto meno mi si addice il ruolo di trottola, che mi obbligherebbe oggi a parlare bene di Tizio e male di Caio e domani di fare l'esatto contrario perché nell'infame gioco delle recite a soggetto ciascuno si trasforma nel famoso orologio rotto che due volte al giorno segna l'ora esatta. Un gioco stancante e soprattutto inutile. Lo lascio ad altri, pertanto, dando vita a un nuovo ciclo narrativo. Invece di privilegiare, con le continue denunce, il concetto banale insito nel pur sempre valido proverbio "non è tutto oro quello che luccica", voglio dare corpo a quello esattamente opposto, di ben più alto valore simbolico, coniato da Tolkien e messo sulle labbra di Gandalf, che lo dedicò ad Aragorn: "Non tutto quel che è oro brilla". C'è tanto di buono, in questo meraviglioso Continente, che non brilla perché per troppo tempo si è lasciato che fossero le patacche a luccicare. Ed è proprio ai "buoni" che voglio dedicarmi, narrando le loro storie, affinché tutti possano capire la differenza tra oro vero e oro laccato. E magari regolarsi di conseguenza. Per me è questo il modo di tornare a scrivere con la gioia nel cuore, senza stressarmi. Magari riuscirò a far percepire anche la "vera" differenza tra Pompeo e Cesare (senza spiegazioni esplicite, che diventerebbero confutabili), che grazie all'incitamento di mia Madre sono riuscito a cogliere, e soprattutto la sostanziale differenza tra i Cesare e i Pompeo del nostro tempo, da tanti percepiti in modo distonico rispetto alla loro vera essenza, contribuendo in tal modo a far lievitare quel grande Caos nel quale sguazzano, divertendosi un mondo, i burattinai di turno.
Con l'affetto e la stima di sempre,
   
    POLITICA    
    di Antonino Provenzano    
       
    IL RIGORE DI GIORGIA    
    Assistita da un'indubbia capacità personale ed anche da una certa dose di fortuna (sempre necessaria: ricordate Napoleone ed i due generali uno bravo ed uno fortunato …. etc., etc.?), la nostra Giorgia nazionale macina successi uno dietro l'altro sia diretti che indiretti. Chiuso il 2022 con il trionfale approdo a Palazzo Chigi (tutto merito diretto), apre il 2023 con un analogo successo (ma questa volta con merito indiretto): la procurata elezione della Schlein alla segretaria del PD. Con buona pace della sempre appropriate metafore calcistiche, la leader di Fratelli d'Italia ottiene infatti il primo gol su azione da centrocampo con elaborata manovra filtrante, mente la seconda rete è invece frutto di un calcio di rigore, da ella stessa comunque procurato. In termini di risultato, non c'è differenza: le partite, come si sa, si vincono con i gol, non importa se da azione o da tiro piazzato. Per restare in metafora, la maldestra, ed in parte disperata uscita (con l'elezione di un anomalo, nuovo Segretario) del "portiere" PD sugli stinchi di una lanciatissima Giorgia ha posto la premessa a che l'arbitro della Storia fischi il fallo ed indichi il dischetto dagli 11 metri.
Il principio esistenziale lasciatomi a perenne monito dalla buona anima di mia madre recita infatti che nella vita bisognerebbe sempre "agire e mai reagire". Nel primo caso il gioco resta nelle proprie mani, mentre nel secondo esso è del tutto in mano altrui. Il confronto tra Meloni e Schlein ci riporta infatti alla perenne dialettica umana tra ragione e sentimento, tra (Platone docet) la parte "irascibile" e la parte "concupiscibile" degli esseri umani, naturalmente al netto di qualunque differenziazione di tipo sessuale. Quando Giorgia parla è più che evidente - "rara avis" - che il suo cervello è connesso con la realtà, che le sue considerazioni da "leader" (e ciò vale anche per quando stava all'opposizione) seguono sempre il percorso mentale dato dalla successione di "fatti - elaborazione - sbocchi" che, condivisibile o meno che esso sia, non difettano mai di mancanza di lineare consequenzialità. Si percepisce infatti come in qualche remoto angolo della sua bionda testolina ci sia una misteriosa, fertile fonte di concetti concreti che fluiscono in una tal maniera che non può non rivelarsi l'esistenza di una naturale coerenza personale, potremmo dire, quasi genetica. Quel che Giorgia dice, piaccia o non piaccia, è sempre ben rapportabile con il suo modo di essere. Cosa questa che - attenzione lo so bene - in politica potrebbe talvolta essere disatteso, ma mai del tutto pretermesso: il supposto "capo" si trasformerebbe allora in un "seguace" , il presunto "cavallo" in "carretto", il politico scivolerebbe nel becero politicante. La storia italiana dal secondo dopoguerra tracima, ahimè, di squallidi esempi in materia che lasciano l'amaro in bocca al solo pensarci.
Onorare l'"arte del possibile" non deve infatti significare lo sbracarsi del tutto a livello concettuale, l'ambito della manovra politica può, e talvolta deve anche, essere ampia, ma senza raggiungere mai l'estremo verdiano del "questo o quello per me pari sono!". Severa guardiana di tale ineludibile linearità concettuale / espositiva è appunto la coerenza, quella di fondo soprattutto. In Giorgia mente e cuore, cuore e mente, non sono distonici tra loro, ma si rapportano bene l'uno con l'altra e ciò traspare da lei in modo evidente.
Non conosco Ely Schlein, anzi, prima che si candidasse a Segretario del PD, ne ignoravo persino l'esistenza. Di punto in bianco mi entra in casa, via TV, con due unici biglietti di presentazione, una biografia personale ed un vagheggiato programma politico, nient'altro. La tavola sinottica che rapporta biografia ad idee lascia, di primo acchito, alquanto perplessi. Un'appartenenza socio- economica all'alta borghesia internazionale si confronta, al contempo, con la difesa a spada tratta di poveri, diseredati, diversi ed emarginati. Mah …, fin qui, e dopo tutto, non ci sono ancora grandi sorprese: su di Ely aleggia, una volta di più, lo scontato sentore di progressismo capalbiano, molto banalmente marinato in sinistrorsa salsa di ZTL. Annodare il filo di una qualche coerenza (appunto, coerenza) tra tali due fattispecie del nuovo capo del PD non è certamente automatico, ma si sa: l'evoluzione, la mente, l'educazione, la cultura possono ben svilupparsi in modo tale da sembrare distoniche con le chiare radici personali di appartenenza / partenza. E ciò, per inciso, potrebbe valere in teoria anche per Giorgia Meloni. Ella infatti, seppur di origine piccolo-borghese e con infanzia sfortunata, si sviluppa in modo altrettanto esponenziale, ma verso un inaspettato orizzonte di "conservatorismo".
Anche in Giorgia la tendenza evolutiva potrebbe dunque apparire in apparente contrasto con la teorica tendenza, in una persona con le sue origini, verso teorici "cambiamenti" progressisti sia di natura individuale che socio-economica. Ma non è affatto così. Con una certa simmetria degli opposti si potrebbe perfino riassumere, con estrema sintesi, dicendo che Giorgia, di origine "proletaria", si batte per la conservatrice difesa di "di ciò che E', di coloro che HANNO", mentre Ely, nata "alto borghese" , si erge a paladina di "di ciò che NON E', di coloro che NON HANNO". Direte voi: "se la vita, dopotutto, è in gran parte cultura ed educazione, perche mai i due percorsi, seppur contrapposti tra loro, non potrebbero entrambi portare comunque a risultati di comparabile positività?". La risposta è invece: NO, non è possibile! E ciò in quanto i campi di azione di Ely e di Giorgia sono del tutto differenti e sostanzialmente incompatibili. Conservazione e Progresso sono in assoluto prodotti di due divinità diametralmente opposte: figlia della mente, la "conservazione", figlio del cuore il "progressismo". La prima si nutre di razionalità, il secondo di emozione. Non per nulla, ai tempi della mia lontana gioventù circolava il detto secondo cui: "se a vent'anni non sei socialista, significa che non hai cuore, ma se a cinquanta sei ancora socialista vuol dire che non hai cervello". Inoltre ciò che è razionale promana dalla testa, sorge dall'alto, è svincolato dalla naturale radice di nascita di colui / colei che elabora il pensiero; è un'azione "artificiale" che può ben nascere da fonte misteriosa ed incomprensibile ed alimentarsi a lungo di una propria linfa vitale svincolata in buona parte dal proprio, concreto "vissuto". Questo, invece, è impossibile per l'emozione.
Essa è infatti fenomeno istintivo, "naturale" che sgorga dalla propria carne e dal proprio sangue, che non può mai by-passare, eludere, svincolarsi da un sentire profondo, quasi viscerale, aggrappato alla radice profonda del proprio più intimo essere. Se non se ne sono succhiati gli ineludibili presupposti con il latte materno è difficile che, attraverso una buona cultura e/o una raffinata educazione, si possa fornire al progressismo sociale un contributo di autentica v.i.t.a.l.i.t.à. Ci si potrà anche spingere fino a limiti teoricamente inimmaginabili, ma, alla fine, lo iato tra ciò che si è e ciò che si afferma non potrà non venire a galla in modo evidente e drammatico. La "ragione" è instancabile, inesauribile ed autoalimentante, l'"emozione", al contrario, dopo un certo tempo si stanca, cede, si esaurisce ed appunto si spegne rimanendo come un sacco vuoto, uno zombi senza vita. Infatti, volontà, cultura, ragionamento e mente possono ben gestire, ed anche a lungo, la Conservazione (Thatcher docet); la passione alimentata da una cultura, l'emozione ed il cuore non possono invece gestire, se non che per una breve fiammata, il Progresso (senza auto-involversi, poi, in una nuova sorta di "conservazione").
E quanto sopra, secondo il mio modesto avviso è tanto più esiziale per il futuro del Pd di quanto non lo sarebbe mai stato un Segretario scaturito invece da una riflessione, un ragionamento, una pragmatica valutazione della difficile realtà nazionale ed internazionale che ci circonda in questa nostra travagliata epoca. Di tutto l'Italia avrebbe infatti avuto di bisogno al momento meno che di un'ulteriore sacerdotessa del politicamente corretto, dei diritti annunciati senza se e senza ma, di un'ideologa della "feroce" opposizione "tout court" in ossequio a narrazioni politiche ormai scavalcate da una Storia corrente, certo ingiusta e crudele, ma a cui opporre soltanto un "wishful thinking" di natura prettamente velleitaria non aiuterà il paese a confrontarsi serenamente ed a cercare di crescere. Il muro contro muro di opposizione già preannunciato della Schlein in ossequio a principi precostituiti e non ad una lettura del concreto con cui confrontarsi, non è una buona notizia per l'Italia. Il governo Meloni avrà dunque, con il nuovo" PD sulla propria strada, un inciampo sterile, rissoso, velleitario, ideologizzato ed in fin dei conti autodistruttivo; il tutto a totale beneficio di quel a lungo sottovalutato Giuseppe Conte che ha ben compreso, sin dalla fine della scorsa legislatura, che l'opposizione diciamo "proletaria" non potrà, per poter sopravvivere, che arroccandosi, almeno per il momento, in un ideologico, prettamente rivendicativo, del tutto autoimposto, ed in fin dei conti soltanto fastidioso, "aventino".
E si, diceva proprio bene la buon'anima della mia cara mamma: "agire e mai reagire". Conseguenza? Una Giorgia Meloni alla Paulo Dybala: palla sul dischetto, finta a sinistra e pallone tutto alla destra dello statico Portiere avversario.
2/3/2023
   
       
    POLITICA    
    di Pierpaolo Sicco    
       
    POLITICHE DI DECENTRAMENTO E GOVERNO LOCALE    
    Se è vero che politica deriva da Polis, ovvero città, allora la politica è l'uomo.
Perché l'uomo è la città. Equazione matematica o metafora?
Senz'altro non la città metropoli, un aggregato magmatico e informe privo di coesione.
Piuttosto la polis - villaggio nella quale la res publica è esercizio comunitario.
La dimensione micro è stata la cifra caratteristica della più antica democrazia al mondo: quella Ateniese. E continua ad esserlo tutt'oggi, nel modello collegiale - consultivo della Confederazione Elvetica.
A distanza di millenni, la risposta ai problemi globali potrebbe provenire dagli Stati più piccoli.
Non è un caso, infatti, che al primo posto per le classifiche riguardanti la competitività globale e la qualità delle infrastrutture si trovino due micro Stati: Svizzera e Singapore.
Ora in realtà si potrebbe aprire un discorso a parte. Seguendo la formula presentata dal politologo indiano Parag Khanna, una forma di governo ibrida sarebbe quella ideale per lo Stato del XXI secolo, definito Info - Stato: una tecnocrazia diretta, ovvero la fusione del modello dal basso - deliberativo svizzero con quello manageriale - top down - singaporiano.
Il segreto del successo di questi due Stati riposa in un sapiente superamento delle dicotomie classiche: l'abilità di saper far convivere rappresentanza e governance, pubblico e privato, pianificazione strategica e iniziativa individuale.
Ma ciò è anche possibile grazie ad una visione estremamente pragmatica, direi utilitarista dello Stato. Visione che l'Occidente non riuscirebbe - giustamente - ad accogliere del tutto.
Ciò che voglio far emergere è tuttavia la correlazione diretta tra dimensione [micro] e risultati [macro].
Finita l'epoca della contrapposizione ideologica, della divisione in due blocchi del mondo, la politica sembra arrancare nel seguire le innovazioni di ingegneria sociale che la rivoluzione digitale ha apportato. Infatti, la digitalizzazione ha modificato il tipico impianto verticistico e centralizzato che aveva contraddistinto le istituzioni politiche sin dalla nascita della Stato sovrano. Internet e le piatteforme funzionano seguendo un'infrastruttura orizzontale e distribuita.
Creando delle comunità virtuali che possono raggiungere dimensioni globali, il digitale ha saputo dare nuova importanza alle istanze particolari, locali. Nei media digitali manca quel rapporto asimmetrico tipico della tecnologia analogica. La radio, poi la tv, si rivolgevano ad un pubblico indefinito relegato ad un ruolo puramente ricettivo e passivo.
Nei social network invece l'utente è allo stesso tempo consumatore e produttore di contenuti (prosumer). Nella nuova dieta mediale la tendenza è sempre di più quella della convergenza dei contenuti su più piattaforme e dell'ibridazione di old e new media.
Queste nozioni superano il campo della sociologia dei media, acquisendo un significato politico ed economico. La politica mutua spesso le sue strutture dall'impalcatura sociale ed economica della società.
Così se nella società di massa lo stato e i partiti ricalcavano l'architettura della grande fabbrica, nell'era digitale sarebbe necessario che essi potessero sfruttare l'efficienza di una nuova economia del potere, orizzontate e distribuita.
Tradotto nella pratica: incentivare politiche di decentramento e governo locale.
Detto così, sembrerebbe banalmente riaffermare quello che nella nostra costituzione è già previsto, ovvero il riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Ma non è semplicemente questo.
Si tratta di entrare in un'ottica in base la quale lo Stato dovrebbe assumere la consapevolezza che la politica nazionale non può più essere tarata sulla base delle esigenze di correnti di partito.
Ma deve sempre di più tener conto che un'Italia a più velocità necessita di riposte calibrate in base alle esigenze dello specifico territorio.
C'è anche qualcosa in più: comprendere che questo processo di destrutturazione degli apparati verticali è irreversibile.
Il governo locale permette una maggiore saldatura tra la politica, la comunità e l'amministrazione pubblica. Dovendo contare su risorse - per quanto in alcuni casi abbondanti - più limitate rispetto a quelle che dispone lo Stato centrale, l'impulso dovrebbe essere quello di investire sul capitale umano. L'investimento sul capitale umano è ciò che permette ad un territorio di fare dei salti di qualità generazionali.
E con esso si potrebbe porre fine a quel processo di fuga dei cervelli che pesa sempre di più a livello demografico ed economico soprattutto nel Meridione.
Insomma, il risultato di politiche di decentramento potrebbe essere, di riflesso, un rafforzamento del sistema Paese nel suo complesso. Il governo locale è anche uno degli strumenti principali per poter riattivare i canali della partecipazione.
Nelle comunità montane o nelle isole, la percezione del potere - fortezza limitato ai palazzi del centro di Roma ha sicuramente allontanato molti cittadini dalla politica e dal voto. Ma una democrazia senza partecipazione è un serio problema.
Promuovere il decentramento significa anche far riacquisire alla politica quel senso di utilità pragmatica che essa dovrebbe avere presso tutti i consociati.
Perché è la politica il luogo delle scelte e delle decisioni più importanti.
Anche qui seguire la logica delle infrastrutture digitali potrebbe essere la chiave di volta per un cambio di paradigma.
È oramai evidente che la complessità non si governa con un "concerto" del sapere.
Ma al contrario è la settorializzazione delle discipline ad aver contribuito all'innovazione e alle scoperte.
Così in politica si dovrebbe far si che ciascuno adotti minori decisioni, ma di maggior qualità. Non sto teorizzando la rinascita delle città Stato.
Sto solamente cercando di pensare ad un modello di Governo che sappia attraverso il decentramento aumentare il potere (hard e soft) necessario per poter contare di più nei grandi consessi internazionali.
Per ridare all'Italia centralità nel Mediterraneo ed in Europa.
Essendo la politica l'arte del possibile, credo - senza troppe pretese - che il compito di noi scienziati politici dovrebbe essere molto simile a quello che Karl Marx rivendicava per primo nella sua riflessione filosofica: non solo interpretare il mondo. Interpretare senz'altro, per poterlo cambiare.
   
       
    POLITICA    
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